I flop della gestione Fassino mettono in crisi la Quercia

L’impotenza con Rifondazione. L’epurazione dei dirigenti più autonomi. E dietro il segretario, D’Alema e Veltroni ora c’è il vuoto

I flop della gestione Fassino mettono in crisi la Quercia

La stoccata al cianuro Piero Fassino la consegna a La Repubblica, in un virgolettato vagante, pesante ma di sicuro autorizzato: «Romano sa come stanno le cose: i patti erano chiari, ben 11 mesi fa avevamo raggiunto un accordo sul fatto che, se avessimo vinto le elezioni, la presidenza della Camera sarebbe andata a Massimo, per ragioni di equilibrio politico e prestigio personale. Possibile che non mi posso più fidare? Possibile che serva il notaio anche tra di noi?». Possibile? Sì.
La crisi dei Ds, in fondo, può essere riassunta anche solo in questa frase. E anche lo sconcerto di un partito che assiste attonito alla «guerra delle poltrone» con Rifondazione (peraltro persa) e che si sveglia il giorno dopo le elezioni con un risultato elettorale catastrofico (Achille Occhetto, nel 1992, al Senato prese comunque il 17,4% e Pietro Folena da segretario reggente, con Veltroni dimissionario in corsa per Roma mise insieme comunque un 16,57). Alla fine i flussi elettorali di quello che un tempo era «il gran partito» assomigliano sempre più a quelli dell’odiato Psi craxiano, perennemente in attesa di un’«onda lunga» che non arriva mai.
Ma il problema più grande è l’identità: se gratti questa sconfitta scopri che se togli questa triade di nomi confidenzialmente posticci, se togli «Piero», «Walter» e «Massimo», il partito non c’è più. E che l’errore più grande del Botteghino è stato quello di supplire con un maldestro surrogato di leaderismo allo svuotamento di ruolo del gruppo dirigente della Quercia. Un tempo il Pci esprimeva un «governo ombra» che faceva invidia a quello laburista, persino i Ds potevano contare su un’area vasta di consenso e di classe dirigente allargata: fino al 1992 c’erano ancora gli indipendenti di sinistra, dopo «l’assoluzione di Craxi», su richiesta di Occhetto si dimisero dei ministri di area come Francesco Rutelli e Luigi Spaventa. Giorgio Napolitano fu un responsabile Esteri che contava più di un ministro, un responsabile organizzazione dei Ds aveva certo più potere di un sottosegretario di Stato. Strano paradosso: allora si riusciva a «governare dall’opposizione», adesso non si comanda nemmeno al governo.
L’unica vera operazione di Fassino, in questi anni, è stata invece quella di smantellare e fidelizzare il gruppo dirigente: fuori tutti gli irregolari o i non allineati, mandato a morire nel cul de sac di una lista bloccata persino Franco Bassanini, usato e gettato in Piemonte un ex segretario dei Verdi come Luigi Manconi.
«Il gran partito» del Bottegone sapeva fare campagna acquisti e includere, il «piccolo partito» del Botteghino declina la sua politica al diminutivo, trita ed esclude quel che non crede di poter controllare. Fuori Beppe Giulietti, per esempio, punta di diamante in commissione di Vigilanza, grande combattente, ma politicamente indipendente. Dentro i Migliavacca, i Damiano, gli uomini più vicini al segretario, i fedelissimi, i famigli e gli apologeti. E poi, una grande operazione immagine tutta centrata sul segretario: sono molti, in queste ore, che si chiedono quanto sia costata la carovana di In viaggio con Piero, un viaggo in dieci tappe con concerti, attori, testimonial e una carovana itinerante che era tutta centrata sulla sua figura (con tanto di sito e finestra per piazzare le rese del libro andato male, Per passione). Quando Folena nel 2001 si era ritrovato con il partito in mano i Ds non avevano un segretario, non avevano una lira, non avevano un premier, uscivano fuori da una disfatta politica a Palazzo Chigi. Questa volta avevano soldi, sponsor, persino un filo diretto radiofonico settimanale del leader, Radioanchenoi, tutti i lunedì mattina in onda sul circuito di Area con la gentile collaborazione di Pierluigi Diaco.
L’ultimo progetto egemonico partorito al Botteghino, in fondo, era la scalata di Unipol a Bnl, una operazione economicistica e dalemiana, e come è andata a finire (intercettazioni a parte) si sa. Ora la strategia della segreteria è schizofrenica: si vellica l’orgoglio di partito, ma la bussola punta sul Partito democratico, che però ha un solo copyright legittimo, quello di Walter Veltroni. E nessuno riesce a capire, se quel che conta è l’orgoglio diessino, perché mai si debba sciogliersi in una aggregazione più grande.

Un tempo, ancora nel 1987, il Pci portava in Parlamento una famiglia di deputati che andavano da Luigi Pintor a Gino Paoli, ancora nel 1989 poteva permettersi il lusso di eleggere il primo eurodeputato straniero (Maurice Duverger), oggi sembra una sorta di super agenzia di collocamento interinale che non sa che fare dei suoi «Piero» e «Massimo». E nemmeno come spiegare ai suoi militanti perché i suoi segretari vogliono andare ovunque, nella vita - da Palazzo Chigi al Campidoglio, al Quirinale - ovunque. Tranne che al Botteghino. Se ci pensi è strano.

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