Ma i fondi non vadano ad Hamas

Ma i fondi non vadano ad Hamas

Le 80 delegazioni riunite a Sharm el Sheikh sul Mar Rosso su invito dei presidenti dell’Egitto e della Francia per discutere degli aiuti internazionali alla ricostruzione di Gaza dopo l’operazione israeliana contro Hamas debbono affrontare un triplo tentativo di quadratura del cerchio. C’è anzitutto il problema dei fondi. I vari governi avevano promesso di fornire 1,7 miliardi di dollari e i palestinesi, rappresentati dal presidente Abu Mazen (responsabile per quelli della Cisgiordania occupata da Israele), ne domandavano altri 2 in virtù di una ritrovata unità palestinese che non c’è, dal momento che Gaza è sotto controllo di Hamas che di Abu Mazen e dalla sua amministrazione non ne vuol sapere. In altre parole – prima quadratura del cerchio - come realizzare l’accordo fra i fratelli nemici palestinesi. Secondo problema: come creare dei canali per il trasferimento dei fondi ai palestinesi che garantiscano che non cadano nelle mani di Hamas (ancora ieri dichiarata organizzazione terrorista dal «quartetto» delle grandi potenze responsabile per la pace nel Medio Oriente) che non intende rinunciare al suo impegno di distruggere Israele. Seconda quadratura del cerchio... Terzo problema: come si può parlare di aiuti economici alla ricostruzione di Gaza – dice Natanyahu, premier incaricato di formare il prossimo governo di Gerusalemme - quando da Gaza continuano a piovere su Israele razzi e tiri di mortai? Impossibile chiedere a Israele di levare il blocco a Gaza – indispensabile per la fornitura degli aiuti – se Hamas continua a colpire centri civili israeliani e intende continuare ad armarsi. Israele non può cooperare a una «ricostruzione» di Gaza ai propri danni. Altra quadratura del cerchio. Come se questo poi non bastasse, dietro l’ordine del giorno ufficiale della conferenza vi sono almeno due temi che il nuovo segretario di Stato americano Hillary Clinton dovrà affrontare. Il primo tema concerne la politica americana da seguire nei confronti della spaccatura del mondo islamico fra sunniti e sciiti. Essa oppone lo schieramento guidato dall’Arabia Saudita, dall’Egitto, dalla Giordania e dai Paesi del Golfo (con l’eccezione del Qatar) a quello guidato dall’Iran assieme alla Siria, gli Hezbollah libanesi e Hamas a Gaza. Questo contrasto politico e religioso, che concerne fra l’altro la legittimità del controllo dei luoghi santi dell’Islam, influenza direttamente e indirettamente quello palestinese. Il secondo tema è rappresentato dalla incognita governativa israeliana. Un governo di destra guidato da Netanyahu appare pericoloso per tutti coloro che credono che la soluzione del conflitto medio-orientale risieda nella coesistenza in Palestina di uno Stato palestinese e di uno Stato israeliano. Un governo del genere fondato sulla coalizione di sette partiti e partitini legati a interessi religiosi, politici ed economici inconciliabili, è una formula sicura di instabilità in politica interna e di immobilismo in politica estera. Netanyahu ne è cosciente. Il suo tentativo di attirare nella coalizione l’attuale ministro della difesa Barak con almeno una parte del Partito laburista uscito malconcio dalle ultime elezioni, è un chiaro tentativo di isolare la signora Livni nel rifiuto di far partecipare il suo partito Kadima in un governo di unione nazionale.

Si tratta di una brillante mossa che l’opinione pubblica israeliana apprezzerebbe di più se non fosse condotta in una situazione di crisi interna e internazionale che richiede rapide decisioni piuttosto che mercanteggiamento di interessi personali e partitici.

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