Quando un genitore sopravvive a un figlio è una sciagura. Alcide Cervi è sopravvissuto ai suoi figli. Ed erano sette. La storia l conosce come i sette fratelli Cervi, protagonisti e vittime di una delle più efferate stragi fasciste che nel dicembre del '43 vide appunto lo sterminio di questa famiglia di contadini emiliani colpevole di aver saputo e voluto vedere forse più in là delle prospettive politiche generali. Colpevole di aver creduto nella possibilità del progresso e della modernità, anche e soprattutto, applicata alle tecniche per la coltivazione della terra.
La parabola dei fratelli Cervi tramonta proprio alla fine di un anno funesto, al colmo di un periodo di grande sofferenze per l'Italia dopo la caduta del fascismo e i primi focolai della Resistenza. È proprio l'adesione a questo movimento a mettere i fratelli Cervi nel mirino, a far individuare in loro il simbolo e l'emblema di una contestazione, insopportabile agli occhi di un regime che sta vacillando ma non rinuncia a difendere le proprie certezze contro chi prende le armi in nome della difesa dalle ingiustizie sociali e della crociata a favore di chi vive il travaglio dell'emarginazione. I fratelli Cervi pagano la loro indomita volontà di reazione e forse anche le colpe di altri, ma qualunque sia il caso o la chiave di lettura, il loro sterminio ha lasciato nei cuori della storia condivisa degli italiani una ferita profondissima.
«I miei sette figli» (Einaudi, pp. 110, 11 euro) è la rievocazione di quella tragedia a una dozzina d'anni di distanza, e il racconto scritto dal padre che, quei sette figli, li vide cadere sotto i propri occhi. Il libro, uscito per a prima volta nel 1955, fu tradotto in moltissime lingue e venduto a migliaia di copie diventando un testo importante per la storia della Resistenza.
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