I guardoni della morte: sotto i miei occhi l’incidente diventa reality

MilanoLa morte è un fiore maligno che sboccia nelle nostre città. Arrivo al semaforo, in una calda notte milanese, e vedo un grumo di persone che gesticolano: stanno sul marciapiede come su una zattera in attesa di aiuti. Qualcuno impugna un telefonino, altri parlano e volteggiano senza una meta. Per terra c’è un giovane: maglietta e pantaloncini. Le ginocchia sono sbucciate. Muove debolmente un braccio. Sempre più debolmente. Poi, più nulla. A un metro di distanza ciò che resta della sua moto, un 250 o un 350, accartocciata. L’uomo percorreva via dei Missaglia, un’autostrada dentro la città, 3-4 chilometri a tavoletta, l’illusione di essere già in campagna. È finita con un terribile crash: dall’altra parte arrivava un Suv mastodontico che proprio al semaforo ha deciso una folle inversione a U. Ora su quel marciapiede, stretto fra il semaforo che va avanti implacabile e la fermata del tram, si consuma l’agonia.
Agonia impersonale e supertecnologica, da divano e telecomando: il ragazzo è immobile, non si lamenta, gli occhi sono spalancati e pieni di dolore come un Cristo medioevale. Ma la vita è un riflesso che se ne va. È arrivata, finalmente, l’ambulanza e i barellieri srotolano un tappeto magico di ritrovati, medicine, sostanze che dovrebbero far scoccare la scintilla. Un palloncino, anzi un pallone, si gonfia e porta l’ossigeno alla bocca e dentro il corpo inerte. Il tubo gracchia come una radio mal funzionante e m’illudo che siano i polmoni. Quel ronzio inquieta. Ma non è quello il suono dominante; la sfida impari è tutta nella voce del lettighiere che scandisce come un metronomo: «Sette, otto, nove, ...ventotto, ventinove, trenta». Poi ricomincia, le mani premute sul petto, il massaggio ostinato per far ripartire il cuore.
È sempre più strano quello spicchio di marciapiede formato Csi: è uno studio medico superattrezzato. Ma è anche un open space della morte. La morte senza separé. Come una camerata enorme, senza pareti e senza pudore. I tram si fermano proprio in corrispondenza con quell’assembramento. I manovratori guardano perplessi, i passeggeri, favoriti dall’altezza delle carrozze, scrutano attraverso i finestrini e contemplano l’agonia che si svolge a un metro e mezzo. La morte, pudica, nascosta e dimenticata, irrompe sui sedili del 15 e del 3, entra nelle macchine che rallentano, incuriosisce i pedoni che portano a spasso cani inquieti. Basta fare pochi passi, anche con il mastino al guinzaglio, e si entra in quella specie di infermeria: «Venti, ventuno, ventidue». Il massaggio è una staffetta: turni di due minuti, o poco più, poi il cambio. E quei numeri, accompagnati dal sibilo del tubo, sostituiscono il bisbiglio del prete e le sue letture al capezzale del morente. Ci penso io a dire una preghiera. I passanti osservano, lasciano un commento incartato nel solito stereotipo: «Ma perché vanno così veloci? Questa via è una trappola, non è il primo incidente che succede». Poi se ne vanno. Ma qualcuno resta: in fondo è come stare al cinema, solo lo schermo è sul marciapiede. Anche i tram non ripartono subito, indugiano, cincischiano e gli occhi di molti restano incollati a quei finestrini. Vicinissimi ma a distanza di sicurezza. Forse cercano di capire, forse cercano il sangue che non c’è, forse un souvenir di quel telefilm a cielo aperto.
È arrivata l’auto medica. Sono in cinque a combattere contro l’ineluttabile: quell’angolo di via dei Missaglia è un piccolo ospedale. Un signore apre lo zaino e comincia a scattare foto, gli altri assistono. Prima vicinissimi, poi, piano piano, più distanti. Perché i vigili hanno messo la fettuccia rosa che delimita le sciagure e perché ad un certo punto il capo dei barellieri si è incavolato: «Non fumate, altrimenti saltiamo in aria - ha gridato, rompendo quel clima ovattato - e allontanatevi».
Ma non è solo questo. È che c’è stato un momento, brevissimo, in cui ci siamo convinti che quel corpo bloccato avesse avuto un leggerissimo sussulto. Un istante. Poi è ripiombato nell’oscurità. Ora la piccola folla sta tre, quattro metri indietro: sui binari del tram, invasi come per uno sciopero, sullo stradone, ormai zeppo di cartelli e lampeggianti, di là del semaforo. Va bene essere coinvolti, ma non troppo. La morte comincia a far paura. E poi chi anche volesse dare una carezza a quel poveretto, non può farlo. Il serpente di Pvc porta sempre l’ossigeno, le consultazioni della task force proseguono, va avanti quel rosario di numeri: «Sette, otto, nove...». La maglietta è tirata su, le mani affondano nella pancia esposta agli sguardi. Non c’è spazio per la pietà. Solo per lo spettacolo. Scelto e insieme subito.
Sarà passata mezz’ora, ma la morte, almeno dal punto di vista delle procedure, è una barriera mobile: i pantaloni vengono tagliati, l’uomo resta in mutande. Quasi nudo, come in una sala operatoria sotto quel cielo caldo. Il guidatore del Suv, più o meno un coetaneo della vittima, è appoggiato alla balaustra che separa dal marciapiede i binari che in quel tratto sembrano quelli di un treno. Fuma sempre più nervoso e domanda affannato: «Ce la farà?» Poi ripete con disperata spavalderia: «C’era il verde, ho girato, non l’ho sentito arrivare». Infine si accascia e resta solo qualche minuto. «Hai bisogno di qualcosa?», gli chiedo. «No, grazie». Finalmente, due amici gli portano un bicchiere d’acqua.
Per terra, si accumulano i kit di plastica, le buste, i segni della battaglia. E in un angolo, rovesciato, c’è il casco nero: sembra l’elmetto di un soldato caduto. Ormai, la guerra è quasi finita. Il ragazzo viene trasferito all’interno dell’ambulanza: il veicolo si sta trasformando in un carro funebre.
Arriva un’auto di gran carriera. Scende disperata la sorella: la vittima adesso ha un nome, Marco. E un’età: 32 anni. Lei vuole vederlo. Urla, piange, impreca. È il dolore, quello che scava e non dà tregua, che prende il posto dello spettacolo. Il portellone scorre per un attimo, poi si richiude. Si parte a sirene spiegate verso l’Humanitas. È lì, nella shock room, la stanza dei codici rossi, che infine Marco verrà dichiarato morto dopo un’ora e venti minuti di tentativi di rianimazione. È lì che la morte tornerà ad essere quella che tutti i giorni ci scorre intorno. Anonima ed estranea.


In via dei Missaglia, la notizia arriva su un telefonino: «Marco non c’è più». Brusio. E tutti a casa. Il giorno dopo, il semaforo è ricoperto da fiori e bigliettini. Di quelli che popolano ormai tanti angoli delle nostre città: «Ciao Marco, i tuoi amici di Rozzano non ti dimenticheranno».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica