Elisabetta Sgarbi è promotrice e imprenditrice di cultura a tutto tondo. Con Umberto Eco fonda la casa editrice La nave di Teseo, nel 2000 lancia La Milanesiana, manifestazione che interseca e contamina saperi intorno a un tema. Si firma Betty Wrong quando impugna la cinepresa realizzando documentari e film, l'ultimo è «Si ballerà finché entra la luce dell'alba- Extraliscio Punk da balera», vincitore del premio Siae (Venezia) e Fice (Mantova). Infine, forte di una laurea in materia, continua a mantenere la titolarità della farmacia di famiglia a Ro, nel ferrarese.
Si muove tra editoria, cinema, management culturale, farmacia. Praticamente una macchina da guerra
«Faccio anche di più: come editrice musicale debutto tra pochi giorni a Sanremo, producendo il brano di Extraliscio, Bianca Luce Nera, che verrà eseguita con Davide Toffolo dei Tre allegri ragazzi morti e sarà in gara tra i 26 big. Lavoro molto, sempre direi, perché faccio cose che mi appassionano e che dilatano il tempo».
E la sua Milanesiana, come la vede nei prossimi 10 anni?
«Come una macchina semovente che costruisca incontri tutto l'anno, ovunque in Italia, e non solo, non definita da una stagionalità; quasi automatica e in cui comunque mi riconosca, questo è essenziale. E le discipline del sottotitolo dovranno occupare una pagina intera. Un festival mondo. E in cui saranno meno le persone collegate in streaming di quante non ce ne siano dal vivo».
L'edizione del 2021 sarà quella della rinascita?
«È nata e rinata tante volte in questi ventidue anni. Ha visto cambiare l'Italia: è nata quando c'erano ancora le Province e la lira. Già l'anno scorso l'avevo definita una Milanesiana della Resistenza, sperando che fosse una Resistenza a termine. E invece stiamo ancora resistendo e la fine è lontana. Io spero sia una Milanesiana che dia il senso della normalità della gioia e della bellezza di stare in uno spazio fisico con gli autori e il pubblico».
E invece, come vede la «Nave di Teseo» da qui al 2031?
«In genere non amo pensare nei tempi lunghi. Mi sembra un gesto di ottimismo infondato, vivo ogni giorno come se avesse una durata enormemente dilatata. Posso dire di lavorare a una idea, a un progetto di casa editrice con un catalogo vivo e vivace, anche se in assenza di novità forti, cosa che può capitare nel corso della attività di una casa editrice. Già ora abbiamo raggiunto una quota di catalogo, rispetto alle novità, ragguardevole, considerando che siamo nati solo cinque anni fa. Ma è un dato che può e deve crescere. E ovviamente vedo una casa editrice che conservi la sua vivacità e larghezza di orizzonti. Restando indipendente, come la vollero Umberto Eco e i fondatori della prima ora».
Qual è il suo ricordo più bello legato alla figura di Eco?
«Quando fondammo La nave di Teseo, in quelle settimane convulse. La sua convinzione e quell'entusiasmo da ragazzino. A un certo punto mi disse: «bisogna chiamare Furio Colombo, con lui ho cominciato tante cose e voglio cominciare anche questa. C'era un sottinteso che nessuno voleva pronunciare, e cioè che fosse una delle ultime cose che avrebbe fatto. Ma questo aggiungeva una emozione forte e un significato assoluto alla casa editrice».
Che in 5 anni ha pubblicato tre Pulitzer prima che fossero premiati: Joby Warrick, Andrew Sean Greer, Richard Powers. Come si fiuta un Premio Pulitzer? Istinto? Esperienza? Entrambi?
«Ah, non lo so proprio. C'è una nube di indeterminatezza in cui stanno intuizione, fortuna, esperienza, gusto. Nessuno sa cosa ha prevalso in quel caso: per un premio vinto, ci sono tanti autori che avrebbero egualmente meritato, ma non hanno ottenuto nulla».
Vogliamo ribadire il concetto di quanto sia necessaria la Cultura per riaccendere identità nazionale e voglia di ripartire?
«Sì, è necessaria, ma senza retorica. Non esiste la Cultura come un qualcosa di astratto, un blocco cristallizzato, come fosse un museo della memoria. Esistono persone che elaborano e realizzano progetti in ambiti culturali diversi. Esistono i musei, i teatri, i cinema, le librerie e ognuno di questi ha una propria particolarità perché dietro ci sono persone con una propria autonomia. Per non parlare della scuola, delle università, e di tutto quanto qui non posso menzionare ma che irrora il mondo della cultura. Bisogna dare la possibilità a queste persone di riprendere la propria attività, il più presto possibile. Non penso si possa aspettare oltre. Rischiamo di trovare macerie».
Il mondo culturale italiano come ha reagito alla pandemia?
«Guardi, ci siamo inventati di tutto. Quindi do dieci a tutti quelli che hanno reagito, che non hanno perso la voglia di fare e la speranza (tema della Milanesiana), anche sforzandosi di rispettare e fare rispettare le norme Covid. E quindi devo ripetermi: bisogna ripartire, altrimenti troveremo macerie».
La pandemia ha accelerato processi, ha messo a nudo meccanismi arrugginiti già nella fase pre-Covid. Nel mondo della Cultura, cosa non funzionava e dunque va riscritto?
«Uno dei libri profetici di questa situazione è secondo me La società signorile di massa di Luca Ricolfi, che ha messo a nudo le debolezze della nostra economia e, in generale, della nostra società. Ora lo stesso Ricolfi sta uscendo con un nuovo libro, che sembra la diretta continuazione del precedente: proprio perché siamo diventati una società signorile di massa abbiamo malgovernato una pandemia».
Lei è una ribelle. Suo fratello Vittorio è ribelle. Quanto ha inciso - in questo - il contesto familiare?
«La famiglia di mia mamma, evidentemente, pesa nei nostri geni. Direi fortunatamente: dire pubblicamente, o agli interessati, di non essere d'accordo forma la personalità. Costringe a fare i conti con se stessi realmente, impone una verifica delle proprie opinioni più attenta e severa, si impara a sbagliare in modo roboante, ma anche a gustare con soddisfazione la vittoria. Era così nostro zio Bruno, che fu molto importante per Vittorio, e soprattutto era così mia mamma: raccontava che aveva vinto il concorso per ottenere una farmacia a Milano dicendo pubblicamente al professore che la esaminava che lui stava sbagliando, e che invece aveva ragione lei. In questo modo vinse la farmacia di Cologno Monzese. Così ci lasciò tutti a Ro Ferrarese per andare a vivere e lavorare da sola. Era una donna molto moderna e sempre all'attacco».
Lei ama ricordare che l'intelligenza non ha sesso. A questo punto, le donne dovrebbero recitare sempre meno il ruolo di donne.
«Io amo le donne forti, che sanno fare valere la propria competenza e determinazione, senza perdere la capacità di sedurre, anzi, la aumentano. Ancora una volta mia madre è stata fondamentale: convinceva e seduceva a un ritmo tutto suo, con piena consapevolezza. La sua intelligenza dominava il mondo. Aveva una carica vitale che non ho più trovato al mondo, se non in mio fratello. Mi manca molto».
Che cosa ha provato vedendo «Lei mi parla ancora», il film che Pupi Avati ha dedicato ai suoi genitori?
«Un caleidoscopio di sentimenti. Dolore, gioia, orgoglio, soddisfazione, malinconia. Ho rivissuto scene che non avrei mai voluto rivedere, come la morte dei miei genitori, e ho vissuto scene che non avrei potuto vivere se non al cinema: il loro fidanzamento.
Se dovesse proseguire questo incipit di frase: cosa scriverebbe? «Era mio padre...»
«Glielo dico da editore: mio padre e' uno scrittore».
E suo fratello? Riesce a separare il Vittorio Sgarbi politico e critico dal Vittorio fratello?
«Vittorio è anzitutto mio fratello e sono cresciuta vedendo lievitare le sue passioni culturali e la sua intelligenza. A lui devo moltissimo, per tutto quanto ho scoperto e per il carattere che, per resistere a lui, mi sono formata. Sulla questione politica, devo rifletterci. È una questione complessa. Spesso ha intuizioni giuste e la foga con cui le manifesta può distrarre dal valore delle sue idee».
Quanto è difficile per un editore comunicare allo scrittore che le ragioni dell'arte vanno conciliate con quelle della macchina editoriale?
«Ci sono casi diversi. Ma uno scrittore e un editore intelligenti sanno di lavorare per la stessa causa. Prendersi cura di un autore, per un editore, è prendersi cura di se stessi. Tendo poi alla assoluta continuità: pubblico scrittori con cui sono cresciuta, che conosco nelle reazioni, nelle fragilità e nei punti di forza. Penso di sapere quando ascoltare e quando insistere. Quando lasciare la presa e quando impormi. E viceversa, ovviamente: anche gli autori, almeno alcuni, conoscono i miei difetti e i miei pregi, le mie debolezze».
Il mondo dei libri, ha detto, si basa sulla fiducia tra editore-scrittore, tra casa editrice-librai.
«Valentino Bompiani diceva che più che al libro era interessato all'autore. In un libro si deve intuire anche quanto l'autore farà di bello in futuro. È un atto di fiducia, una scommessa su ciò che non si vede ma si è certi che ci sarà. Questo atteggiamento contempla anche la necessità di stare accanto all'autore quando questi si trova in momenti di difficoltà. L'editore può perdere denaro su questo o quel romanzo dell'autore, ma è certo, in cuor suo, che è solo un momento e che andrà meglio. Anche l'autore, d'altra parte, deve avere un rapporto improntato alla fiducia: l'editore può sbagliare. I librai, poi, o hanno fiducia nelle proposte dell'editore, e credono in quello in cui lui crede, o altrimenti non ci sarebbero quelle sorprese positive di cui vive il mercato del libro».
Gli italiani non sono grandi lettori. Cosa si può fare per educare alla lettura?
«Anche qui, bisognerebbe uscire dalla retorica o dalle idee mirabolanti e infruttuose. I dati sulla lettura hanno ragioni storiche e, soprattutto, leggere non si comanda, come non si comanda di amare o sognare. Leggere è un piacere complesso e profondo. Servono anzitutto bravi insegnanti: persone appassionate e colte a cui brillino gli occhi quando parlano di romanzi e saggi ai loro giovani studenti. Quel brillio può accendere in uno studente una scintilla che non si spegne più. Ma ripartire dai professori - formarli, valutarli, premiarli - è un investimento che richiede una visione del futuro. Ce l'abbiamo?»
Lei quante ore legge al giorno? E in che momenti?
«Leggo sempre anche quando non leggo. Ho imparato a leggere nei momenti più impensati. A volte ci sono testi da leggere con urgenza, e bisogna sospendere qualsiasi altra attività. Ma in genere la notte, quando il telefono cessa di suonare, la riservo alle letture di curiosità. Di notte le parole valgono di più».
Lei è editrice e regista. Qual è la forza della parola di cui è sprovvista l'immagine, e viceversa?
«C'è una distinzione importante: come regista io sono l'equivalente dello scrittore, e mi dovrei confrontare con il produttore come l'autore si confronta con il suo editore. Quanto al rapporto tra parola e immagine, è un terreno molto complesso, perché si richiamano a vicenda. Per anni ho cercato un dialogo diverso tra cinema e parola, tanto che inventai uno slogan Il cinema delle parole, per un mio film molto audace, Notte senza fine. Il cinema a un certo punto della sua storia ha scoperto la parola ed è stato un trauma che solo in pochi hanno saputo affrontare con eleganza, come il duo Lubitsch/Raphaelson. È un passaggio molto affascinante, raccontato da film straordinari come Dancing in the rain».
Non manca mai il rosso nelle sue mise.
«Amo molto i colori. Ma non ho mai smesso di vestirmi di nero, portando sempre orecchini rossi».
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