I personaggi e i fatti che raccontano la storia del nostro Paese in una serie di immagini d'autore

Le stagioni e i tempi sono volati via, nemmeno ce ne siamo accorti, e proprio quest'anno Gimondi ha vinto la maglia del giovane settantenne. Assieme a lui, noi piccoli e grandi ragazzi d'allora, tutti ci siamo ritrovati improvvisamente a fare i conti con il sapore delle nostre età, variabili nel gusto e nei retrogusti, ma ormai irrimediabilmente adulte.
Adesso come allora, è consolante scoprire come Gimondi e il gimondismo tornino sempre utili come stelle polari per un certo modo d'affrontare la vita, questa interminabile corsa a tappe, con le sue sfide, le sue fatiche, le sue gioie, le sue lacrime, le sue vittorie e le sue sconfitte.
A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, Gimondi passò alla storia essenzialmente per un "ma": grande campione, "ma" se non fosse nato nella stessa epoca di Merckx sarebbe diventato cento volte più campione, al superlativo come il Cannibale e come Coppi prima del Cannibale. Così, con questa didascalia, uscì dalla sua lunga epopea, comunque costellata di tutte le vittorie più aristocratiche, dal Tour al Giro (due volte), dalla Vuelta al Mondiale, dalla Parigi-Roubaix alla Milano-Sanremo e al Lombardia. Scese di bicicletta ed entrò nella storia del nostro costume come simbolo di un certo tipo umano, dell'uomo capitato al momento sbagliato nel posto sbagliato.
Eppure, se ancora oggi la storia gli tiene in caldo un sedile di prima fila, il segreto sta tutto in quel "ma": nel suo modo di viverlo, subirlo, accettarlo, trasformandolo in una impareggiabile griffe personale, buona per gli sconfitti di allora, buona per gli sconfitti di sempre.
A Gimondi non è mai piaciuto perdere. Non era un perdente di successo. Non era un perdente con il sorriso sulle labbra. Gimondi era un feroce combattente, il secondo posto gli rodeva come ferita aperta. Per questo, non ha mai smesso un solo giorno di pensare alla vittoria. E più perdeva da Merckx, più si convinceva di poter un giorno battere Merckx. Già da allora fu chiara la sua dignità e il suo orgoglio, soprattutto la sua dimensione d'uomo: semplice nei modi, scarno nel vocabolario, ma padrone di un'eleganza tutta sua, da figlio della postina cresciuto a sani principi e buone maniere, senza fronzoli e senza sbavature, con una forza d'animo indomabile. Soffrendo su e giù per Alpi e Pirenei, Felice conquistò gli italiani rivelandosi essenziale e duro come la roccia, perfetto attore protagonista di uno spot eterno e immutabile, che molti di noi non hanno più scordato: dobbiamo tutti provare ad essere Merckx, ma prima ancora bisogna riuscire ad essere Gimondi. Perché essere Gimondi significa alzarsi tutte le mattine con la ferma intenzione di sfidare l'impossibile.


E' così che tutti noi di quelle generazioni ci ritroviamo oggi a guardare sulla mensola della nostra vita, dove abbiamo deposto i ricordi migliori, scoprendo che Gimondi è sempre lì, intoccabile, con la sua cadenza di montagna, il suo volto di ventenne antico, il suo modo eroico di vincere perdendo.

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