Alessandro Vitale*
Il paradosso odierno, che porta a vedere nella politica, nel mantenimento di elevati livelli di tassazione e di spesa pubblica, nei salvataggi governativi delle industrie nazionali, nelle tentazioni protezioniste, nelle politiche redistributive di risorse ormai prosciugate perché dilapidate da decenni proprio da quelle trappole e nell’azione a tutto campo delle classi politico-burocratiche e delle nomenklature dei partiti politici l’ancora di salvezza nel tempestoso mare della crisi e delle turbolenze economiche, è quanto mai amaro.
Lo è in primo luogo perché è qualcosa di stantìo, di già visto in periodi storici che sembravano lontani e superati, oltre tutto in un’epoca di sconfinate potenzialità quale quella odierna, inaugurata dalla timida ripresa storica della globalizzazione, che nella storia aveva assunto forme molto più imponenti. In secondo luogo il paradosso è amaro perché assegna il compito di mitici «salvataggi» proprio ai maggiori responsabili della più colossale erosione delle ricchezze prodotte: coloro che, impersonandolo, si fanno chiamare «Stato» e che da più di cento anni fondano le loro posizioni di potere su una spaventosa estensione della sfera «pubblica» e sulla più colossale sottrazione di ricchezze con metodi politici (la violenza e la minaccia del suo uso) e non economici (produzione e scambio) mai vista nella storia. Risalendo fino al vertice la catena delle cause dell’attuale crisi, si scopre che è proprio l’azione di caste burocratico-parassitarie che controllano le banche centrali e i sistemi bancari collegati, che gestiscono arbitrariamente la moneta e il credito, fuori da qualunque logica di mercato, fissando arbitrariamente tassi d’interesse elevati o ridotti, a provocare i disastri finanziari ai quali abbiamo assistito, con la distruzione di immense ricchezze.
Serie ricerche dimostrano che la crisi è stata causata e verrà prolungata e aggravata, come era già accaduto nel 1929, dalle azioni e dagli interventi delle autorità pubbliche e dai loro eccessi nella politica monetaria, come noto monopolio di Stato, che disorientano gli investitori, impossibilitati a muoversi sulla base degli indicatori costituiti dai prezzi di mercato e dal calcolo economico. Questo conferma la teoria del ciclo elaborata dalla «Scuola Austriaca di economia» (che non a caso aveva previsto da anni questa crisi, come conseguenza della folle espansione creditizia stimolata dalle banche centrali), compiuta dal più grande economista del ’900, Ludwig von Mises, snobbato da sempre, non certo a caso, nelle Università divenute «riserve di Stato» e fucine per la produzione di fedele burocrazia. In terzo luogo quel paradosso è amaro perché rivaluta ruoli, politiche e strumenti dei quali solo pochi riescono a vedere «la faccia nascosta»: da una parte l’incremento del peso politico-burocratico, della tassazione e della regolamentazione nella vita civile, sulla produzione di ricchezza e di valore economico e nello scambio, e dall’altra la proliferazione di un fenomeno a lungo occultato nelle scienze politiche e sociali, ma di colossale rilevanza e dalle vaste conseguenze materiali: il parassitismo politico.
Quest’ultimo non è che il vivere alle spalle degli altri in forza del potere politico, creandosi riserve di rendite garantite («rendite politiche», connesse al possesso e alla gestione del potere) e non aleatorie, come sono quelle, per definizione instabili e potenzialmente anche negative, di mercato. Rendite che assumono la forma di un bottino politico che servirà, spartito fra i seguaci come al termine di una guerra, a gestire il potere e a gratificare coloro che lo impersonano, dai vertici alle burocrazie.
Il parassitismo politico è sempre esistito; è una costante della storia umana. Lo si ritrova nella conquista bellica e nella sottoposizione a tributo del nemico vinto (soprattutto gli imperi dell’antichità) o nelle forme, sempre più sofisticate, di tassazione «interna» degli Stati moderni, nei quali una classe politica riesce a sottoporre a tributo interi ceti e gruppi «vinti» e privi di protezione politica. Per questo alcuni seri studiosi di ieri e di oggi \ hanno inteso il parassitismo come uno strumento essenziale per la comprensione della natura di un sistema politico, del suo sviluppo e perfino del collasso di intere civiltà. In effetti il parassitismo politico, l’eccesso di «rendite politiche» e la loro caccia è in grado di spiegare una quantità enorme di fenomeni politici e storici.
Una costante, a esempio, alla base del collasso dell’Impero romano e recentemente di quello sovietico, è quella in base alla quale se il livello del parassitismo politico supera quello della produzione di risorse, il sistema si avvita e si inabissa. Un’altra, molto ferrea, è quella della «riscossa parassitaria»: raggiunto un elevato grado di ricchezza, grazie alla libertà economica e degli scambi, dell’intrapresa, classi politico-burocratiche prendono immancabilmente di mira quelle riserve per sfruttarle ai propri fini. Si pensi al caso dei coloni americani prima della Rivoluzione, considerati ben poco in precedenza dagli inglesi. Ma anche la produzione di inflazione da parte delle banche centrali con la moltiplicazione senza copertura aurea di segni monetari risponde alla stessa logica. Così come l’aumento esorbitante della spesa pubblica.
La proliferazione burocratica e il parassitismo politico hanno assunto, \ soprattutto grazie alla strutturale monopolizzazione e crescita spropositata del potere (alle quali ben poco ha potuto opporre il Costituzionalismo), dimensioni colossali nello Stato moderno e contemporaneo, creando fenomeni distruttivi e problemi sempre più gravi per la convivenza civile e la prosperità economica. Fra l’800 e il ’900 la burocrazia, mantenuta dalle imposte, che vive di rendite basse ma garantite e come lo Stato non produce risorse, è esplosa numericamente (del 400 per cento). La tassazione ha ormai raggiunto, comprendendo quella implicita, livelli distruttivi e irreversibili (il 60 per cento delle risorse prodotte): ai tempi di Adam Smith una del 10 per cento era considerata sufficiente per giustificare una rivoluzione. Il parlamentarismo ha stimolato il parassitismo politico in una guerra fatta di esorbitante produzione legislativa (che ha devastato il diritto) per favorire interessi particolari e organizzati e per assicurarsi il voto, assicurando il sostentamento, che come nel patologico caso italiano è diventato professione, di una legione di ceti parassitari, ossia di tax consumers, di fruitori di tasse.
La «democrazia», trasformatasi in molti Paesi in dittatura della maggioranza, è divenuta guerra per la sottoposizione a tributo dei produttori di risorse mediante tassazione e regolamentazione in ambiti sempre più estesi. L’intromissione dello Stato nelle relazioni di mercato ha finito per generare povertà, come dimostrano ad esempio il protezionismo agricolo europeo, causa primaria di una crisi alimentare epocale che durerà decenni o il fallimento delle politiche dello «Stato sociale», che hanno sempre avuto il fine nascosto non di servire ai poveri, che vediamo infatti ogni inverno (italiani e non extracomunitari) morire di freddo per le strade di Milano, quasi che ci trovassimo in una repubblica ex sovietica, ma a categorie privilegiate e politicamente protette, nonché a sterminate burocrazie. Ma forse la conseguenza peggiore del parassitismo politico è la sua capacità di penetrare e corrompere la mentalità e la cultura. Orde di cittadini abituati a dipendere in tutto dallo Stato, cercano protezione politica per poter accedere a risorse, sempre più esigue, estorte con la forza, per essere mantenuti dalle imposte, per fare accedere i propri figli ai posti pubblici, in una guerra di tutti contro tutti, senza esclusione di colpi.
La vita civile e produttiva contemporanea è sempre più compressa in una soffocante gabbia d’acciaio, mentre caste che si servono del monopolio della violenza legittima riescono a disporre, a spese altrui e per i loro fini egoistici, di risorse conquistate con la forza (sul piano interno e internazionale), sempre più spesso dilapidandole in mille canali di spreco, considerati normali e in favori politici fatti di paghe e di rendite garantite. In particolare nei sistemi politici più centralizzati o nei quali domina il parlamentarismo assembleare e il mito dello «Stato sociale», il parassitismo politico dilaga: burocratizzazione della vita civile, legislazione incontrollata e tassazione spropositata sono infatti strettamente collegati e interdipendenti. Essi spezzano la società in tax payers e tax consumers, in fruitori di «rendite politiche» da una parte e operatori della produzione e dello scambio dall’altra. Nei Paesi «democratici» questo problema viene occultato da finzioni e da formule di legittimazione del potere che impediscono di intravederne la realtà profonda. Si tratta invece di fenomeni connaturati all’evoluzione stessa dello Stato moderno (che è il «sistematizzatore» storico del parassitismo politico) ma enormemente esasperati dalle forme che questo ha assunto, prima progressivamente guerrafondaie e poi «welfariste» e «sociali», che ne sono la diretta eredità.
Si assiste oggi a una «riscossa parassitaria»? Sembra proprio di sì. Ai gravissimi problemi provocati dal parassitismo politico stesso (gestione statalizzata della moneta e del credito, inflazione) si risponde con contromisure che generano ulteriore parassitismo: la produzione di parassitismo a mezzo di parassitismo. Una catena, una marcia della follia verso il precipizio che non potranno essere interrotte se non con il ritiro della politica e dello Stato da tutti i settori che ha indebitamente invaso negli ultimi centocinquant’anni.
Una necessità ormai impellente, questa, nonostante la dilagante opinione contraria, perché i veri produttori di risorse sono allo stremo e un’intera civiltà rischia di collassare. Come è già accaduto in passato.*Università degli Studi di Milano
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