Un giovane professore prematuramente pensionato, afflitto da un'oscura malattia, quasi cieco, in costante movimento tra la riviera italiana e francese in inverno e l'Engadina d'estate. Questo era Friedrich Nietzsche nel 1879, quando lasciava l'università di Basilea, dando inizio a una vita errabonda. In sette inverni, cambierà un numero inverosimile di abitazioni, deprecando sempre «la sudiceria del meridione», e lamentando di non riuscire a trovare «nulla di adatto ad un essere pensante e pulito come me».
Tra Svizzera, Italia e Francia, con un gigantesco baule che conteneva i fogli su cui scriveva, Nietzsche viaggiava in treno, e lo detestava: odiava il movimento, il continuo traballare, le carrozze non riscaldate, vomitava spesso, e ci metteva giorni a riprendersi da un viaggio. Prima di tutto questo, «l'asceta che ha intorno tutto quanto gli è più spiacevole», però, aveva insegnato, tra il 1869 e il 1879, Filologia all'Università di Basilea: in questi anni, scriverà La Nascita della tragedia e le Considerazioni inattuali, come ricorda Piero di Giovanni nella sua accurata, vivida introduzione a I filosofi preplatonici (Mimesis), che contengono le lezioni preparate per gli studenti di Basilea tra il 1872 e il 1876. Secondo Nietzsche la tragedia e la filosofia rappresentano quel modo di interpretare l'esistenza umana che la scienza, nella sua dimensione fenomenica, non può cogliere nella sua interezza. E nei suoi presocratici, non ci sono solo Talete, Anassimene o Anassimandro, ma anche Edipo e Dioniso, che rispecchiano quell'atrocità della vita sulla terra che sarà esplicitata dal Sileno nella Nascita della tragedia («Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto»): parole non troppo diverse da quelle del vademecum del pessimista di ogni tempo, il Qohélet: «I morti perché morti io lodo, i vivi no perché vivi. E più di loro il felice che non è ancora stato».
Nietzsche sapeva bene che «il desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti» dell'uomo greco «si era sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dal dolore»: come quelli descritti dal presocratico che considerava il suo diretto antenato, cioè Eraclito. «Sublime, solitario, estatico», Eraclito riesce a concepire l'idea dell'eterno divenire, «che in un primo momento ha qualcosa di spaventoso ed inquietante»: e solo una forza notevole poteva trasformare «questo effetto in quello opposto, cioè in quello del grandioso e dello stupore gioioso». Perché i presocratici vivono nell'età tragica, dionisiaca dei greci, non quella della decadenza, che inizia con l'Atene di Pericle e avrà il suo esponente più famoso in Socrate: irascibile, col naso piatto, le labbra grosse e gli occhi sporgenti, questo «autodidatta etico», secondo le parole di Nietzsche, non era altro che un incolto plebeo nemico dell'arte, della scienza e della natura. Decisamente più vicino alla «poderosa formazione dello spirito e del cuore» nietzschiana era, invece, Empedocle, che nella lotta tra philia (amore) e neikos (odio) riesce a intravedere il senso del dolore che l'uomo è costretto a vivere e soffrire nel mondo.
Quella lotta dolorosa che Nietzsche avrebbe portato avanti per tutta la sua vita, è espressa anche da Anassimandro, il «primo filosofo pessimista», e dal suo apeiron da intendersi, secondo Nietzsche, come «indeterminato» che garantisce il divenire, eterno come la solitudine dell'Anticristo più straordinario che la storia abbia avuto: «La mia solitudine è sempre stata assoluta. Non che me ne sia mai lamentato... Non posso fare altrimenti. Io ne ho bisogno. Io esilio me stesso».
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