“L'elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e un suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Waine, l'Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l'Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l'unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, lui è nato Superman, quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande ‘S’ rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l'abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede; e quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in sé stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana”.
Milano - La politica allunga le mani sui cartoni animati. Niente di nuovo, è prassi ormai consolidata da decenni. Se in piena Seconda guerra mondiale Capitan America salvava (apertamente) il mondo dall'avanzata nazista, con l'avvento della Guerra fredda i fumetti si sono fatti portatori di "messaggi subliminali" che, secondo stimati studiosi, hanno agito sulle menti dei più giovani. Dalla Civil war della Marvel alla matrice comunista dei Puffi di Peyo, dalla (non) famiglia di Topolino ai dissacranti Simpson: nessun cartone è immune dalla longa manus della politica.
Politica e società nei supereroi Nel 1941 usciva nelle edicole Capitan America, personaggio nato dalla matita di Joe Simon e Jack Kirby per Timely Comics. Tuta e scudo stelle e strisce. Il supereroe in difesa della patria. Il personaggio nasce come figura di propaganda proprio quando infiamma la Seconda guerra mondiale: è il prototipo dell’America liberale che si batte contro un’Europa imperialista e liberticida. Vinta la Germania nazista e cessato l’allarme ecco che Capitan America smette gli elementi nazionalistici per assumere una sensibilità e un’umanità senza precedenti. E’ così che, in un’America dove a fatica si distinguono destra e sinistra, Capitan America è forse il più strenuo oppositore all’Atto di registrazione dei supereroi. E’ la guerra civile: due fazioni ben distinte di supereroi si scontrano. E Cap diventa il capo della coalizione che si oppone al provvedimento perché la ritiene una violazione dei diritti civili. Negli anni Ottanta, quando stati Uniti e Unione Sovietica sono sull’orlo di una guerra nucleare, la DC Comics partorisce la saga dei Watchmen, persone comuni che hanno deciso di fare il mestiere del supereroe. Gli avvenimenti storici vengono capovolti. E’ meta-narrazione, la realtà si fa alternativa. Gli States escono vincenti dalla guerra del Vietnam spingendo Mosca ad accelerare la corsa agli armamenti nucleari. “Proprio perché nel fumetto e nel cartoon è impossibile la censura – spiega Vincenzo Susca, ricercatore di Sociologia della comunicazione allo Iulm e autore di Transpolitica – Nuovi rapporti di potere e di sapere – il rapporto con la politica si fa forte e intransigente. Venendo dai margini dell’industria culturale del sistema gli autori – continua il sociologo – tentano di approfondirlo attraverso un sistema linguistico diverso, capace di far fuori le problematiche del tempo”.
L’evoluzione del supereroe Dalla dittatura alla minaccia del comunismo, dall’eplosione tecnologica alla crisi di valori. Un secolo a fumetti. Fino ad anticipare la realtà. E’ così che la New York post 11 settembre era stata più volte disegnata, temuta e idealizzata dagli autori dei fumetti. “Il topos del supereroe ha vissuto innumerevoli parabole – continua Susca – inizialmente il supereroe viene dalla massa: è l’uomo qualunque, comune, incapace e timido”. E’ il caso di Superman e Spiderman. “Nel corso degli anni i supereroi si allontanano dall’uomo stesso – spiega il sociologo – facendo trasparire una sorta di pessimismo nei confronti dell’umanità”. E’ il caso di Ratatouille, l’immaginario topolino che rivoluziona il mondo del gusto nell’immortale Parigi. “Il cartoon ci sussurra in modo contemporaneamente sottile e profondo i tratti della condizione postumana in cui siamo gettati alle soglie del terzo millennio, laddove il sapere dimora, in modo parossistico, all’esterno dell’uomo”, spiega Susca. Niente più estensioni tecnologiche, come le aveva battezzate Marshall McLuhan, ma bacini dell’irrazionale o di ogni possibile corruzione e inquinamento. E’ una rivoluzione per le creazioni di Walt Disney che nel 1928 elaborava un mondo dove topi, paperi, cani e gatti provano le gioie e le pene degli esseri umani.
I Puffi e il comunismo Che dietro ai cartoni e ai fumetti si celino pensieri politici più o meno mascherati è ormai assodato. Dietrologie, messaggi subliminali e letture al limite del possibile non mancano. D’altra parte agiscono su menti fresche e completamente aperte quali quelle dei bambini. I media sono stati infatti uno dei campi di battaglia preferiti della guerra fredda. Cristian Fineschi vede proprio nei Puffi di Peyo un classico esempio di indottrinamento delle nuove generazioni occidentali ai principi del comunismo. Pelle blu, berretto bianco, sesso ed età indefinibili ridisegnerebbe l’idea comunista di società egualitaria senza barriere tra i sessi e tra gli individui. “I puffi si identificano l’uno con l’altro solamente grazie al ruolo che ognuno ricopre nel processo di produzione, il loro nome è dato dalle abilità specifiche e dai compiti che assumono nel ciclo produttivo della comunità”. Così, il termine 'puffo', che precede la qualifica del singolo, assume una funzione unificatrice sociale dei membri del villaggio. Tra le letture presentate da Fineschi quella su Gargamella è sicuramente quella più interessante. Nemico giurato dei puffi, Gargamella è la raffigurazione umana del capitalismo dal momento che vuole sterminarli trasformandoli in oro (e,quindi, in mercato). Suo gregario è il gatto Birba che, nella versione originale del cartone, si chiamava Azrael. “Il tipico nome di origine ebraica rimanda all’altro grande nemico del regime sovietico, gli ebrei”. Infine, l’economia del villaggio ideato da Peyo è pianificata e centralizzata sul modello socialista reale: non esiste moneta, la struttura si sviluppa su principi redistributivi pianificati dall’alto, il mercato è inesistente ed è impossibile rintracciare attività private volte a fini di lucro. “I puffi sono un proletariato che si è emancipato dalla schiavitù borghese e vive applicando le idee del socialismo reale – spiega – è Grandepuffo che stabilisce che cosa serve, in che quantità e quando deve essere prodotto o raccolto”.
La famiglia al centro di tutto Ma la vera rivoluzione nei cartoon approda in America alla fine degli anni Ottanta. La matita e il genio sono quelli di Matt Groening e James L. Brooks. I Simpson sono la parodia per eccellenza della società statunitense: un universo ben strutturato – e sapientemente compresso tra le case di Springfield – riproduce in tutto e per tutto quello che gli Stati Uniti sono al giorno d’oggi. C’è tutto. La prima apparizione risale al 19 aprile 1987 quando, durante il Tracey Ullman Show mandò in onda il corto Good night. Da subito fu chiaro che la serie avrebbe cambiato per sempre il valore sociale del cartone animato. Non a caso il 31 dicembre 1999 il Time lo ha acclamato come “miglior serie televisiva del secolo”. L’anno dopo i Simpson ottenevano una stella sulla Hollywood Walk of Fame. E’ la cultura pop intrisa della decadenza di fine secolo e dei (numerosi) limiti sociali che gettano l’Occidente nel nuovo millennio a rendere la sitcom di Groening una vera e propria rivoluzione culturale. “I Simpson – spiega Susca – ricalcano l’arte del sopravvivere all’interno di una società in cui il potere c’è ed è schiacciante. Ma non ha l’ultima parola. Tramite l’ironia la famiglia – continua – può rosicchiare margini di libertà fino a emarginarsi”. Si consolida così il sentimento comunitario. Siamo lontani dalla società edulcorata ideata da Walt Disney con Topolino che non ha mai lasciato trasparire alcun contrasto tra lo Stato e la vita familiare. “Con Disney – puntualizza Susca – la società viene edificata sul lavoro: più volte Paperino viene punito proprio per richiamare il lettore a una certa gamma di valori”. La famiglia si lacera del tutto in South Park: alla fine degli anni Novanta Matt Stone e Trey Parker reinventano la società. Nelle gesta di Stan, Kyle, Eric e Kenny la distruzione definitiva della società americana cercando di sfatare i tabù e le demonizzazioni proprie di un Paese ormai amorale e decadente.
“La famiglia non è più intesa in senso borghese – spiega Susca – ma al centro c’è la tribù che insegna quei nuovi valori che mettono al centro del vivere la capacità di arrangiarsi, lo spirito edonistico dell’esistenza e la vittoria schiacciante del dionisismo”. Gli attacchi più cinici sono indirizzati proprio contro le leggi politiche ed economiche, come a dire: così i valori non funzionano più.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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