I suoi incubi di celluloide sul lettino del Centro milanese di psicoanalisi

«La metafisica non m' interessa, e nemmeno l' esoterismo. Magari dovrei consultare uno psicoanalista, per scoprire perchè giro pellicole di questo tipo» ha confidato Roman Polanski a El Pais, in un sussulto di lucida preoccupazione, all'uscita parigina de «La nona porta», nel 1999. Ma come recita un detto «Se Maometto non va alla Montagna, la Montagna va da Maometto». E la psicoanalisi ha, infatti, rivolto il suo profondo sguardo oltre la superficie dei film del maestro della modernità, intessendo una fitta letteratura a partire dalle intricate trame, scandagliando stati d'animo e incubi dei suoi protagonisti e spesso rintracciando una legame con il suo autore. Demoni e mostri, assassini e persecutori, figure in netta contrapposizione con il mondo esterno, personaggi spesso senza identità definite, isolati e rifiutati, si rincorrono nei film del maestro dell'intrigo psicologico, erede morale del grande Hitchcock. Artista visionario e (iper)realista, Roman Polanski è stato protagonista di un significativo omaggio, con una retrospettiva completa dei suoi film, della 26 edizione del Torino Film Festival, appena conclusa. La retrospettiva arriva a Milano e si arricchisce della possibilità di approfondire gli aspetti più problematici della vita dell'artista, attraverso la lettura critica e psicoanalitica di alcune sue opere, grazie alla partecipazione di alcuni studiosi del Centro Milanese di Psicoanalisi «Cesare Musatti». «Abbiamo scelto di approfondire questi tre titoli - spiega lo psicoanalista Mario Martinetti - tralasciando gli altri solitamente più noti, come Repulsione, perchè ci riportano ad un discorso più ambiguo che rimanda alla tematiche di fondo del cinema di Polanski. Il tema centrale, infatti, di tutta l'opera di Polanski è quello dello sradicamento. I suoi personaggi sono posseduti da qualcosa di estremo, come in Rosemary's Baby, un'opera che finisce nel sangue e nella follia, o nel delirio come in Repulsione. I confini non delineati dello sradicamento, al tempo stesso, si restringono in spazi claustrofobici, che alla fine esplodono in qualcosa di distruttivo». E sempre di piu, quasi a segnare gli accadimenti della sua tragedia esistenziale (tra i tanti, la fuga dal campo nazista e l'assassinio della moglie), i film del maestro polacco, che non ama parlare di se (ma è appena uscita una intensa autobiografia), diventano sempre più crudi e sanguinosi... Con Chinatown che gli valse la nomination a vari Oscar, forse si intravedono i primi «sintomi» di riscatto psicologico. «Chinatown è un film atipico -continua il dottor Martinetti - il protagonista infatti, ritrova la sua personale Chinatown, mentre nei film precedenti tutti personaggi non riescono ad emergere e subiscono sconfitti i fatti della vita». Ne Il pianista, altra pellicola pluripremiata, Polanski si cela dietro la storia vera del pianista polacco Wladyslaw Szpilman, che aspetta la fine della guerra in uno stato costante di terrore e di fame, rielaborando la storia della sua vera infanzia. «Ne Il Pianista- conclude lo psicoanalista Martinetti- vi è invece una novità: a partire dallo spaesamento iniziale dove c'è la scoperta dell'altro.

Ma se l'Altro è anche una presenza ingombrante dentro ciascuno di noi, un nemico portatore di altre istanze, allo stesso tempo è anche Il compagno segreto che rimanda al personaggio del romanzo di Conrad, che aiuta il protagonista a risolvere la tempesta. L'Altro, in questo caso, può diventare quel “compagno interno“ che ci può aiutare a stare dentro la realtà della propria vita».

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