(...) «LEuropa è alle porte e ai concittadini di Cristoforo Colombo non va proprio di restarne fuori. Presto avranno il Supertreno che collegherà in 50 minuti la città di Milano (siamo nel 1992 ndr), e battendo sul tempo Torino entrerà in funzione la linea metropolitana. Non basta: cè chi parla già di trasformare lenorme area dellex Italsider di Cornigliano in un gigantesco spazio per il terziario (ma dove? ndr)».
Il 15 maggio 1992 si aprirono le Colombiane, il 15 agosto dello stesso anno si chiusero sontuosamente. E i giornali scrivevano: «Alla chiusura dei cancelli i genovesi si troveranno con sei ettari di spazio con vecchi edifici interamente recuperati e già pronti per accogliere uninfinità di attività. I Magazzini del Cotone, quattrocento metri quadri costruiti nel 1901 da un ingegnere inglese, potranno ospitare una sede del Cnr per coordinare ricerche sul mare (ma dove? ndr), la «Piazza delle feste» rimarrà luogo di incontro coperto (ma dove? ndr), la nave del Padiglione Italia diverrà sede di una galleria darte contemporanea (ma dove? ndr), i secenteschi edifici del Porto franco saranno adibiti a Centri per terziario (ma dove? ndr)».
E sentite cosa dichiarava Piano in quel 1992: «Il porto deve tornare ad essere quello che è sempre stato, il naturale prolungamento della città. Fatto rivivere pensando al passato di Genova, alla gente che partiva e si imbarcava. E utilizzando i 585 miliardi (sic!) di finanziamento pubblico guardando molto al dopo e poco alle Colombiane».
Sono passati ventanni e viene da chiedersi se chi ci ha governato finora ha mai pensato al «dopo» avendo a disposizione quasi 600 miliardi... Ma cosa è stato realizzato di tutto quello che si auspicava ventanni fa?
Perché allora la nostra città era bella e vivibile e piena di speranze, di ottimismo: le Colombiane rappresentavano un grande sogno, un grande ponte immaginario che avrebbe dovuto davvero unire Genova al mondo, o quanto meno allEuropa che stava avvicinandosi. E invece...
Una città godibile, disponibile, accogliente: lo testimoniano uomini di allora, importanti attori, scrittori, politici che avevano imparato ad amare la Lanterna. Sentite qualche riflessione sotto un bel titolo di giornale: «Accendete la Lanterna!». Carlo Rognoni, ex direttore de Il Secolo XIX dichiarava: «Credevo di arrivare in un posto senza vita (arrivò a Genova nel 1987), con poco scambio sociale. Ho scoperto che il carattere dei genovesi è rispecchiato dalla struttura della città, senza grandi piazze, ma con viuzze strette, caruggi insomma. A Genova non è la facciata delle case che conta, ma gli interni e la loro ricchezza».
E la bella consorte dellimprenditore Oliva (in auge in quegli anni) Daniela diceva: «Genova mi sembra un pezzo dInghilterra dotata di un clima stupendo».
E lallora presidente dellIp, società petrolifera (una delle tante aziende che nobilitavano il tessuto produttivo della città, raccontava: «Genova è una città che vive dentro, a differenza di Roma che è tutto esteriorità. La sua più grande virtù? La qualità della vita che offre».
Ma Genova, in quegli anni, viveva anche freneticamente fra speranze e ottimismo, la città vestiva con eleganza (Finollo alla ribalta, con Pescetto per il primo cachemire...), le vie degli antiquari erano frequentatissime, amati su tutti Berenghi in via Caffaro e Rubinacci in via Garibaldi.
E di sera si usciva, senza tante paure, si scoprivano le «bettole» dei caruggi, chi dimentica «Piro» in vico delle Camelie e Mario Rivano in Fontane Marose o da «Carletto» in vico del Tempo Buono, o al «Porto Franco» in Sottoripa...
E chiudiamo con le parole di Renzo Piano pronunciate in quel 15 maggio 1992 davanti al Porto antico: «Mi auguro che ora si vada avanti, i progetti ci sono tutti, ma deve partire il motore.
Era il 15 maggio del 1992...
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