Firenze - Edilizia selvaggia o creatività spontanea? Piani regolatori o progetti fai-da-te? Disegni ambiziosi di demiurghi e archistar o città realizzate a misura d’uomo? Prima e oltre ogni pianificazione strategica, lo spazio abitato e edificabile si organizza per così dire da sé. Grazie all’azione anonima, spontanea, silenziosa, provocata «dal basso» di una «Urbanistica quotidiana». È un’idea della sociologa californiana Margaret Crawford, docente di Pianificazione urbana e Teoria del design alla Graduate school of design della Harvard University, autrice di un volume che ha fatto epoca nella comunità degli architetti, Everyday Urbanism (Monacelli Press, 1999) e direttore responsabile dell’omonima rivista di architettura. L’abbiamo incontrata a Firenze, dov’era ospite del simposio sullo «Spazio pubblico nella città diffusa» organizzato dall’Osservatorio sull’architettura della Fondazione Targetti.
Professoressa Crawford, che cos’è l’urbanistica quotidiana?
«Scritto con la minuscola, l’urbanistica quotidiana si riferisce al numero infinito delle azioni che la gente comune compie e degli spazi che impiega per dare una forma alla propria vita e al quartiere dove abita. È l’impronta di carattere lasciata sugli spazi residenziali, commerciali, ricreativi di un città da coloro che la abitano. È l’espressione di desideri, gusti, preferenze, esigenze che chi vive, o lavora, o viaggia in un’area urbana trasmette rinnovando la propria abitazione. Dal colore delle serrande, alle insegne dei negozi, ai parcheggi delle biciclette, l’“uso” che abitanti o avventori fanno di una città lascia sempre un segno. Scritto a lettere maiuscole, lo Everyday Urbanism è la teoria che descrive l’approccio urbanistico di chi vuole capire come funzionano quelle pratiche e lavorarci su».
Questa azione spontanea dei cittadini deve essere controllata? Governata da un politico? Progettata da un architetto?
«Architetti e politici devono mettere da parte le loro idee normative e guardare più da vicino la vita delle persone. Nella loro molteplicità e specificità le pratiche quotidiane di intervento sugli spazi urbani da parte di chi ci vive e lavora rappresentano una sfida alle categorie di studio di cui disponiamo e ai nostri presupposti su ciò che è o dovrebbe essere una “buona” urbanistica. L’urbanistica quotidiana costringe gli esperti professionali e ufficiali della pianificazione a ripensare gli strumenti con cui agire sugli spazi pubblici. Li incoraggia a lavorare con altri strumenti, basati sulla realtà esistente. C’è moltissimo da imparare dal modo in cui differenti gruppi di persone stanno organizzando la propria esistenza quotidiana».
Chi vive, lavora, si muove nella città, sa di essere responsabile della sua trasformazione?
«Perseguendo i loro obiettivi quotidiani - privati, sociali, economici, culturali... - i cittadini lasciano la loro impronta. Espressa attraverso i loro bisogni, la loro esperienza diventa il fulcro dell’appartenenza a una comunità, un principio di identità economica e sociale, un diritto di cittadinanza che spesso conduce a una nuova e sorprendente configurazione degli spazi urbani e suburbani. È una nuova presa di possesso del territorio che si sta realizzando in tutte le città del mondo».
La tecnologia e il traffico diffusi, non daranno una fisionomia uniforme a tutto il pianeta?
«La globalizzazione, a tutti li livelli, produce effetti altamente specifici quando agisce localmente sul campo. Fenomeni come migrazione, global branding e turismo hanno un impatto assai diverso in diverse situazioni. L’Urbanistica quotidiana si interessa alla specificità di questi contesti. Si occupa del modo in cui diversi gruppi umani rispondono agli impulsi dell’economia e della comunicazione globali. Credo che le generalizzazioni teoriche del cosiddetto spazio globalizzato - i “non luoghi” di Marc Augé, il Junkspace, lo “spazio spazzatura” di Rem Koolhaas - non abbiano mai prestato da vicino la debita attenzione a ciò che in quelle porzioni di spazio realmente succede».
E quel che succede non è una trasformazione caotica? Non rischia di offendere il gusto, infrangere i piani regolatori?
«Può sembrare un processo disordinato, ma di fatto è sempre dettato da urgenze reali, esigenze funzionali e abitudini consolidate. Prendiamo ad esempio il commercio ambulante. Ho lavorato sodo per farlo legalizzare e legittimare a Los Angeles. Molti credevano che la vendita di prodotti per le strade fosse una forma di disperazione economica. Di fatto molti di questi piccoli commercianti sono i protagonisti di una microeconomia assai complessa e redditizia. Vitale per il tessuto urbano. Si deve cercare di capire come questo microcommercio funziona. Quali sono i suoi punti deboli e quali i vantaggi che apporta. Non semplicemente opporsi al suo effetto apparentemente dirompente».
Mercatini di strada, venditori ambulanti a Los Angeles. Lei fa questi esempi. Spesso sono visti come elementi di disturbo...
«Più che come elementi di disturbo, vedrei questi conflitti come un momento fondamentale di ogni democrazia. La democrazia non è un concetto astratto, né una struttura vuota: è la pratica attiva di una sempre rinnovata definizione di se stessa. Più che una falla nello spazio pubblico, la presenza di pratiche che sembrano infrangerlo costituisce uno dei momenti più fertili della sua natura. La conseguenza è che in base a esse vengono ridisegnati i confini tra pubblico e privato. E ridiscussi i concetti di cittadinanza e di democrazia».
Agli occhi di «archistar» e «city planner» tutto questo non parrà una forma di degrado?
«Ma l’urbanistica quotidiana non intende affatto rimpiazzare il ruolo dei designer e dei pianificatori delle aree urbane! Piuttosto è un lavorio che si svolge accanto e successivamente alla loro opera. Un’aggiunta o un complemento ai progetti disegnati sulla carta a tavolino, realizzati sul terreno cittadino e consegnati a chi di fatto lo abiterà. L’everyday urbanism, scritto con la lettera minuscola, agisce tutti i giorni nelle nicchie nei cantucci e negli angoli dell’urbanistica ufficiale.
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