Gli ideali sono grandi ma gli alloggi restano sempre "mini"

Alle retoriche installazioni sull'accoglienza e il riciclo fanno da contraltare i progetti concreti: minimalisti

"Designing for the commond good" al Padiglione Italia della Biennale di Venezia
"Designing for the commond good" al Padiglione Italia della Biennale di Venezia

Benvenuti a Reporting from the Front la Biennale di architettura di Venezia a firma dell'architetto cileno Alejandro Aravena. All'inaugurazione di ieri - solo per stampa e addetti ai lavori, il pubblico entra da domani, insieme con Matteo Renzi, fino al 27 novembre - giornalisti e architetti sono sciamati all'Arsenale e ai Giardini per fare quello che fa la contadinella arrampicata sulla scala nei manifesti della Biennale: dare un'occhiata oltre le archistar (per scelta quest'anno sono poche). La prima impressione è quella di una Biennale in cui è facile inciampare nei calcinacci. Ad esempio il padiglione della Germania (lo progettò Albert Speer) è stato sventrato. Hanno aperto dei buchi nelle pareti, puntellati con eleganti putrelle verdi, ammucchiando i mattoni levati in supporti squadrati. Poi l'hanno riempito di seggioline bianche. Sono simbolo di accoglienza e insieme con le pareti abbattute rappresentano l'apertura della Germania ai migranti. Il titolo dell'opera è Making Heimat. Germany. Arrival Country (Costruendo la patria. Germania. Terra di arrivo). Basta questo a chiarire l'impostazione di tutta la Biennale: l'architettonico è politico e l'installazione d'impatto prevale, nella maggior parte dei casi, sul progetto.

Dove non ci sono mucchi di mattoni o riutilizzi di spazzatura (parliamo dell'ingombrante istallazione del polacco Hugon Kowalski, vero vanto di Aravena), ci sono le periferie: riqualificare è il tema dominante di quasi tutti i padiglioni, da quello Usa a quello italiano. Gli architetti a stelle e strisce presentano una dozzina di progetti per rivitalizzare Detroit, che con la fine dell'industria pesante presenta un panorama desolante di gigantesche cattedrali del lavoro in rovina. Nei rendering c'è, lo capisce anche il profano, quella concretezza yankee che ha trasformato in putrelle il sogno americano. Ma anche qui non manca la polemica politica, seppure in sottofondo. Il presidente Obama vorrebbe sistemare a Detroit alcune migliaia di profughi siriani. Stranamente il governatore dello Stato del Michigan si oppone, la città ha già difficoltà ad integrare la più antica comunità messicana...

Per quanto riguarda il Padiglione Italia all'Arsenale si sposa l'approccio soft, minimalista, ecologico, conservativo, dichiaratamente low cost. Curato da Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso si intitola Taking care. Prevale il piccolo, la pista per gli skaters al Gratosoglio di Milano, le olive del parco dei Paduli a Lecce, il co-working ad Agrigento, le residenze molto artistiche per artisti. Non manca però il tocco glamour di allestimento e catalogo (tra i più apprezzati dell'Arsenale) realizzati in forma di graphic novel. Nell'insieme è davvero un padiglione comprensibile, che mostra interventi di buonsenso come il riutilizzo della casa di un boss di Casal di Principe in forma di museo.

Porta invece direttamente al fronte la proposta di Forensic Architecture dell'israeliano Eyal Weizman. Il suo studio con sede a Londra analizza gli effetti dei bombardamenti sui palazzi per fornire informazioni alle agenzie internazionali. Scelta insolita per una Biennale. Invece potrebbero aver sottovalutato il messaggio di Aravena - «Bisogna superare la mediocrità del mercato e includere la gente nel processo decisionale» - al padiglione della Gran Bretagna. Gli affitti londinesi sono troppo cari? La risposta sono mini alloggi dove si dorme appiccicati ai fornelli della cucina. Case scatola azzurrine in cui il letto è arrampicato sopra il bagno. Microbolle di sopravvivenza che non fanno ben sperare e farebbero ribellare anche un giapponese. Ma si sa, un conto è sperimentare e un conto abitare.

Per il resto bisogna segnalare almeno un paio dei giochini che andranno di moda in Biennale. Quest'anno niente personalismi, le archistar presenti hanno tutte optato per presentarsi sotto la sigla di uno studio, fa più fine. Così attenti se qualcuno vi dice: «Hai visto G124?» non dovete rispondere: «Colpito e affondato» ma dare un parere sul progetto di Renzo Piano. Invece per quello che riguarda il puro spettacolo alle Corderie dell'Arsenale si trovano progetti/installazioni che divertono. Se vi viene il dubbio che il progetto EduCARE sia uno scivolo, non ci avete azzeccato. È un mollone rosso su cui potete passeggiare facendovi venire il mal di mare. Il progetto Light scopes dello studio tedesco Transsolar si può leggere in due modi: ardito utilizzo dello spazio e della luce per coinvolgere i sensi dell'uomo, oppure dei buchi nel tetto con faretto. Per i visitatori della Biennale è la prima cosa. Per molti di coloro a cui questa Biennale è idealmente dedicata, gli abitatori delle periferie disagiate, è forse la seconda. In ogni caso i bambini lo adorano, esattamente come la nuvolona del padiglione svizzero in materiale indefinibile, dentro cui si può entrare (si chiama Incidental space).

Poi per carità è innegabile che è stato dato grande spazio ai Paesi emergenti e che alcuni progetti come la funicolare di Medellín del colombiano Giancarlo Mazzanti (raccontata con un video) sono semplicemente stupefacenti per semplicità e potenzialità, in questo Aravena ha cambiato le prospettive. Ma il percorso per rintracciare l'architettura di frontiera è costellato da mucchi di mattoni e va a zig zag.

Tra bottiglie di plastica trasformate in lampadari, lezioncine sul riciclo (spesso a mezzo post it), e modellini di case che ricordano quella dei Barbapapà, l'impressione è che i giganteschi progetti di riedificazione post bellica della Germania, illustrati nel plastico azzurrino Neubau, a cui si guarda per la Germania di oggi che dovrà accogliere milioni di migranti, siano la cosa più concreta, razionalista non per vezzo ma per necessità.

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