Lodevoli ma tardive la dimissioni di Pier Luigi Bersani. Lodevoli e tempestive quelle di Rosy Bindi. Il segretario del Pd, responsabile della linea del partito, già la sera del 25 febbraio, constatato che le urne gli avevano consegnato una vittoria risicata, praticamente una sconfitta, avrebbe dovuto intuire che non sarebbe riuscito a combinare nulla se non scendendo a compromessi: allearsi con il Pdl e con il M5S. Da solo, infatti, non avrebbe potuto governare per mancanza di numeri. Per settimane, ottenuto un incarico esplorativo da Giorgio Napolitano, ha cercato l'appoggio gratuito dei grillini, che gli veniva negato puntualmente.
Lungi dal rassegnarsi, egli ha insistito rasentando il ridicolo, piegandosi all'umiliazione di vedere respinta ogni propria avance. Contestualmente, non prestava orecchio alle proposte di collaborazione di Silvio Berlusconi, il quale, persuaso che Bersani non avrebbe cavato un ragno dal buco, fin dal primo momento si era dichiarato disponibile alle cosiddette larghe intese. Niente da fare. Bersani ha preferito andare a sbattere contro un muro piuttosto che stringere patti con l'avversario di una vita. Risultato: nessun esecutivo.
Nel frattempo il mandato di Napolitano si avvicinava alla scadenza. Bisognava pensare al dopo. Chi eleggere al Quirinale? Serviva un nome capace di mettere tutti, o quasi, d'accordo. Franco Marini? Senza entusiasmo, l'ex sindacalista ed ex presidente del Senato, viene candidato dai due maggiori schieramenti. Sulla carta Marini dovrebbe passare al primo colpo. Ma non è così. Il Pd, scosso da malcelate polemiche interne, al momento del voto reagisce istericamente: una fazione disubbidisce agli ordini impartiti dal vertice e disperde i consensi, provocando la bocciatura di quello che doveva essere l'uomo della concordia.
Ciò che è successo il dì appresso è addirittura paradossale. Il Pd seleziona, con soddisfazione espressa all'unanimità, Romano Prodi, nella convinzione che questi sarà spedito sul Colle con i soli suffragi dei progressisti, al massimo con un aiutino di qualche esterno ammiratore dell'ex premier. Alla verifica dell'aula, Prodi è trombato nel peggiore dei modi, avendo raggranellato oltre 100 voti meno del necessario. Ennesimo fallimento di Bersani che finalmente si rende conto di non avere più in mano il partito, e si dimette. Meglio tardi che mai, usa dire. Ma, in questo caso, i tentennamenti e gli errori del segretario sono stati esiziali. Il Pd è allo sbando. Ha perso credibilità. Versa in condizioni pietose. Rischia addirittura di spaccarsi. Altro che gioiosa macchina da guerra di buona memoria occhettiana: un ammasso di rottami.
Bersani fa quasi tenerezza, ora. Però è difficile perdonargli la serie di sciocchezze inanellate negli ultimi mesi. E pensare che il suo trionfo alle primarie pareva destinato ad essere bissato alle politiche del 24-25 febbraio, quando invece il Pd superò di misura il Pdl del Cavaliere, giudicato derelitto. Raramente si è assistito nella storia repubblicana a un disastro come quello causato dal leader piacentino, persona perbene, un'onesta carriera alle spalle, esperienza da vendere. Probabilmente Bersani, avendo battuto abbastanza agevolmente il rampantissimo rottamatore, Matteo Renzi, si era un po' montato la testa, affrontando gli impegni successivi con la disinvolta superficialità tipica di chi è affetto da presunzione acuta. Si è deconcentrato e non ne ha più azzeccata una, poco sorretto dalla fortuna, soprattutto insensibile ai segnali lanciati dai suoi elettori desiderosi di novità forti.
Sia come sia, egli non ha capito niente e non è stato all'altezza del ruolo assegnatogli dal partito, in cui fino ad alcuni mesi fa prevalevano i conservatori dell'apparato. Supponiamo che il Pd, valutata la crescita sorprende del M5S, abbia mutato umori e idee nel giro di qualche giorno e abbia scoperto di essere attratto dal costume pseudorivoluzionario del M5S, al quale tende ad assomigliare e forse a unirsi. All'improvviso i democratici si sono accorti di avere un segretario inadatto a rappresentarli e hanno dato segni di insofferenza agli schemi obsoleti che il Pd ha ereditato dal vecchio Pci, peraltro messi in crisi anche dalla presenza di un nutrito gruppo di ex democristiani.
Di qui l'implosione cui stiamo assistendo increduli. Prossimamente, ammesso e non concesso che la situazione politica italiana si stabilizzi almeno provvisoriamente, il Pd avrà l'esigenza di darsi in fretta un assetto dirigenziale attrezzato per gestire almeno il fallimento, salvando il salvabile. Non osiamo fare previsioni, consapevoli che potrà accadere di tutto. L'unica certezza è che un'epoca è chiusa e non è finito soltanto Bersani, contro il quale sarebbe crudele accanirsi. Basta la realtà a condannarlo.
Diversa la posizione di Rosy Bindi, presidente del partito.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.