
Ennio Flaiano diceva che quasi tutti i giovani hanno il coraggio delle opinioni altrui; se, come penso, egli aveva ragione, significa che le nuove leve non sono molto diverse da quelle vecchie, perché legate fra loro da un filo robusto di conformismo che garantisce continuità da una generazione all'altra. Quindi non ha senso pensare che un trenta-quarantenne impegnato - mettiamo - in politica possa essere più utile di un sessanta-settantenne ai fini di una sana amministrazione della cosa pubblica.
La discriminante non è l'anagrafe, ma l'attitudine (la volontà, la determinazione, insomma il talento) a occuparsi con profitto dei problemi che affliggono un Paese. Negli ultimi anni, invece, si è rafforzata la convinzione che il nostro ceto politico non sia all'altezza dei propri compiti perché troppo su di età, e la parola d'ordine che si è affermata è: largo ai giovani. Un luogo comune antico, una banalità degna di Carlo Codega.
I grillini poi, pur pendendo dalle labbra di un signore piuttosto stagionato, Beppe Grillo, barba da profeta e occhi luciferini, ripetono come dischi rotti di voler rifiutare qualsiasi dialogo con i partiti tradizionali responsabili di ogni guasto patrio e, pertanto, privi di titoli per cercare di ripararli. Con una distinzione: il M5S è disposto a trattare con il Pd solamente se rappresentato dai cosiddetti giovani turchi, ossia da personaggi politicamente verginelli.
Affrontare la questione del rinnovo della classe dirigente in termini anagrafici è illogico. Siamo d'accordo che il Palazzo vada ripulito e rinfrescato, magari allontanando le solite facce e reclutando qualcuno non usurato dal potere. Ma che il requisito richiesto a questo qualcuno sia di essere nato dopo il 1970 è assurdo. La natura, si sa, non è democratica: le categorie degli stupidi e dei provveduti sono trasversali. Esistono ragazzi intelligentissimi e ragazzi deficienti. Idem gli anziani: molti sono fessi, altrettanti saggi. Dovendo selezionare 20 ministri cui affidare i nostri destini, suppongo sia più vantaggioso, nel valutarne l'idoneità, tenere in maggior conto le doti intellettuali. Il numero delle primavere mi parrebbe secondario se non addirittura ininfluente.
Da quando mi sto avvicinando pericolosamente ai 70, confesso di non avere in grande simpatia coloro i quali credono che i capelli bianchi siano segno di rincoglionimento e che, viceversa, il folto crine e la giovinezza siano qualità indeperibili. Ne sono consapevole: il mio è un pregiudizio. Ma lo è anche quello di chi mi guarda con sospetto perché non indosso i jeans a vita bassa. Il tempo vola e ti porta via con sé: vale per tutti; la verde età non è un bene duraturo e, talvolta, non è neanche un bene, ma una condanna all'irrilevanza.
Infine, bisogna intendersi sul concetto di giovinezza: quando comincia e quando finisce? È vecchio chi domani tirerà le cuoia. In questi giorni al centro dell'attenzione c'è Enrico Letta, presidente del Consiglio incaricato. Ha 46 anni. Parecchi lo elogiano (a prescindere dalle sue opere, che non ha ancora realizzato) perché è giovane. Ma lo è davvero? Senza scomodare Benito Mussolini, che all'età di Letta era già stanco di fare il Duce, o Napoleone, che a 30 era generale, o Alessandro Magno, che a 33 morì nonostante fosse padrone di mezzo mondo, senza scomodare i defunti, dicevo, non è azzardato affermare che a 46 anni un uomo è un uomo e non un pivello.
Al di là di tutto ciò, osservo come il penoso motto «Largo ai giovani», e quello ancor più antipatico «Basta con i vecchi, vadano a casa», siano carichi di velenose valenze razzistiche da respingere. In queste espressioni volgari non si coglie tanto il legittimo desiderio dei ragazzi di annientare la Casta, quanto quello - illegittimo - di eliminare fisicamente chi impedisce loro di bruciare le tappe.
Strana società, la nostra. È stato debellato il razzismo che obbligava le donne a ruoli subalterni. È stato debellato il razzismo che relegava gli omosessuali ai margini del consorzio civile.
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