Detto e fatto, Matteo molla il governo Letta-Alfano

Renzi prende le distanze dal premier e vice sulla "svolta generazionale": io sono diverso da loro, dalle larghe intese sono passati alle marchette

Detto e fatto, Matteo molla il governo Letta-Alfano

La citazione ha natali illustri e un pericoloso precedente che oggi calza a pennello su Enrico Letta. «È il più grande poeta italiano morente», ebbe a dire Ennio Flaiano del semper taciturno Vincenzo Cardarelli, che pure d'estate soleva indossare tre cappotti quasi a proteggersi dal freddo interiore, dalla mestizia di un animo ormai volto all'Eterno Nulla. Ultimo e «più grande poeta morente», nelle parole di Fausto Bertinotti in un'intervista del 4 dicembre 2007, fu Romano Prodi al suo secondo governo, che non a caso doveva infrangersi sugli scogli poche settimane dopo.

Una constatazione che bandisce la ferocia, eppure resta pura semplice, e veritiera, constatazione di ciò che è. Immune da certe finezze di background, Matteo Renzi ha però una marcia in più e non intende sacrificarla alla crepuscolare stabilità - sarebbe da scrivere stasi, fissità, rigor mortis - dettata da Napolitano e interpretata dal giovane premier. Non è certo per vacua vanità che, dopo aver mandato avanti un suo fedelissimo su facebook, «uno sfogo di pancia» minimizza lui, il segretario del Pd affida nelle stesse ore alla Stampa il suo personale sfogo, ben più articolato e incisivo. Dal quale emerge un dato di fatto che è lo stato d'animo del sindaco fiorentino; così in 213 righe ricorrono più volte espressioni del tipo «se pensano di ingabbiarmi, non mi impicco, è il giochino dello scaricabarile ma con me cascano male, potevano risparmiarsi e risparmiarci» a voler rimarcare il concetto cardine: sono «totalmente diverso da Enrico e Angelino», «mi sento un marziano a Roma», ai palazzi tipo il Quirinale «non ci sono abituato» e dunque «ho sbagliato giacca».

È qui, in questa preziosa estraneità conquistata mediaticamente che Renzi gioca l'intera sua partita con l'imperativo che la sorregge, scongiurare cali di tensione. Com'era prevedibile, con un governo da tempo nelle secche e da ultimo in totale confusione, con una maggioranza risicatissima di sette senatori, a Renzi non può bastare il riassetto del partito e l'attesa del semestre europeo. «Con l'anno nuovo si passa dalla chiacchiere alle cose scritte», dice. Oltre non poteva andare, alla vigilia del discorso di Napolitano che tenderà a blindare ancora una volta Letta junior, magari in forme mediatiche più in linea con il dinamismo dei tempi, ma dalla sostanza scontata. Ed ecco così il leader pidino acconciarsi ad accentuare la «diversità renziana», il tirarsi fuori dalla melassa generazionale. «Non posso accettare - si sfoga - l'impostazione che Enrico ha dato alla sua conferenza stampa di fine anno, quando ha detto che un salto generazionale è compiuto, facendo quasi immaginare un'intesa tra lui, Alfano e me. Le cose bisogna raccontarle per come stanno. Lui, Enrico, è stato portato al governo anni fa da D'Alema, che io ho combattuto e combatto in modo trasparente; e Alfano al governo ce l'ha messo Berlusconi...». Il «sono totalmente diverso» trova perciò un dato incontrovertibile che rimette pesi e misure al loro posto: «Io ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone mi hanno votato...». E quanti voti, invece, ha preso Enrico? E quanti ne racimolerà mai Angelino? (La difesa d'ufficio di Sacconi sarà da manuale surrealista: «Alfano ha un passato, tu ancora no»).

Renzi spiega che «non va bene se si fanno marchette e si passa dalle larghe intese all'assalto della diligenza, e per fortuna stavolta non l'ho detto io», ma Napolitano «che non si può certo accusare di essere un nemico del governo Letta». La parola «rimpasto», aggiunge, gli fa «anche un po' senso». «Si sbagliano alla grande se pensano di potermi ingabbiare» con un rimpasto: se è per questo, già «fatico a tenere Delrio al governo, perché ogni tanto mi dice che vuole lasciare». Altro che un sottosegretario o un ministro in più, «non basta cambiare tre caselle, da gennaio ci faremo sentire sul serio». Se gli altri ci stanno, bene. «Altrimenti non avrebbe senso continuare», constata il segretario pidì.

In tanti dei suoi, rivela, lo stanno spingendo verso le urne. «E io rispondo: calma ragazzi, calma». Lui resiste, fino a quando non ne potrà proprio più. Lo stratagemma è antico, l'epilogo scontato. Le liriche del dolore all'ultimo verso, tronco.

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