La fine dell'imbroglio spread e i falsi meriti di Monti e Letta

Il differenziale tra titoli italiani e tedeschi è tornato ai livelli pre-crisi, sotto quota 200 È l'effetto dell'aumento dei tassi di Berlino e della politica del governatore Bce Draghi

La fine dell'imbroglio spread e i falsi meriti di Monti e Letta

Tra le tante cose che ha detto il nuovo segretario del Pd negli ultimi giorni, una è buona: «Per il calo dello spread il merito fondamentale è di Mario Draghi». Ci voleva il messia Renzi per dire che il re è nudo. In barba a Monti, in barba a Letta, e in barba a tutti gli strumentalizzatori che avevano attribuito a Berlusconi le responsabilità della crisi. Lo scorso venerdì si è celebrata la discesa dello spread Btp-Bund a 200 punti. Cercando di riabilitarsi, Mario Monti ha tenuto a specificare che dei 374 punti recuperati dal 9 novembre 2011 (spread a 574) e il 3 gennaio 2013 (spread a 200): 302 sono merito del suo governo e 72 del governo Letta. Balla spaziale che dimostra come Monti di queste cose capisca poco. Basterebbe ricordargli i 536 punti del 24 luglio 2012 e il relativo intervento della Bce.

Quanto a Letta, è vero che lo spread è diminuito di 100 punti nel 2013, ma non per merito del governo, bensì per via dell'aumento dei rendimenti del Bund. I rendimenti dei nostri titoli erano intorno al 4% un anno fa e tali restano, mentre i rendimenti del Bund erano intorno all'1% e oggi sono schizzati al 2%. È stato il Bund a contribuire a ridurre lo spread: come nell'estate 2011 aveva contribuito a farlo aumentare con la vendita dei titoli italiani in portafoglio. Vendita che ha dato il via alla speculazione internazionale contro il nostro Paese, usata per eliminare Berlusconi dalla scena politica italiana.

C'è poco da festeggiare. Siamo tornati ai livelli di spread dell'estate 2011, ma il bilancio di questi 30 mesi è distruttivo. La pressione fiscale ha superato il 45%; il debito pubblico è al 133%; il numero di disoccupati e cassintegrati è raddoppiato; il Pil è crollato, da +1% nel secondo trimestre 2011 a -1,8% nel terzo trimestre 2013; abbiamo registrato un abbattimento dei consumi delle famiglie del 10% e un pari crollo degli investimenti delle imprese; un crollo medio del valore del patrimonio immobiliare degli italiani del 30%; il ceto medio è stato distrutto; 10 milioni di italiani sono sotto la soglia di povertà; centinaia delle nostre imprese migliori sono state acquistate a prezzi di saldo. Nei 30 mesi sono state fatte inutili manovre per 203 miliardi (effetto cumulato dal 2011 al 2013), 325 miliardi se si considerano le manovre del 2008 e del 2011. E, quel che è peggio, abbiamo sospeso la democrazia: con la caduta di un governo legittimamente eletto e la nomina di un governo tecnico prima e di uno del presidente poi.

La corsa a rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato comincia a giugno 2011. Nei mesi precedenti i rendimenti dei titoli del debito pubblico della Germania sono su una curva ascendente per i problemi della finanza privata: le banche a rischio per i loro comportamenti spericolati e i loro investimenti sbagliati. La reazione è geniale, cinica e irresponsabile: la Germania decide di trasferire la crisi del suo sistema bancario sui Paesi più deboli dell'Eurozona vendendo e dando indicazioni di vendere i titoli del debito sovrano. A giugno 2011, Deutsche Bank vende titoli greci per 500 milioni di euro e titoli di Stato italiani per 7 miliardi. Questo innesca una reazione a catena che genera panico sui mercati e apre la strada alla crisi, con spread alle stelle. Molto probabilmente la strategia mirava a riportare il Bund sotto il 3%. L'operazione finisce per sfuggire di mano provocando la tempesta perfetta. Risultato: da un lato rendimenti dei titoli del debito pubblico tedesco ridotti a un terzo, dall'altro rendimenti quasi raddoppiati per i Paesi vittime della manovra.

Una grande speculazione. Una grave crisi finanziaria cui la Commissione europea di Barroso non ha saputo dare risposte. E che solo la Bce di Mario Draghi è riuscita in qualche modo a domare. Quando davanti all'ennesima impennata dello spread del 24 luglio 2012 si impegna a fare whatever it takes per difendere l'euro. Da quel giorno lo spread ha iniziato a diminuire.

In Italia la visione calvinista per cui se il Paese era sotto attacco speculativo le colpe erano da addebitare al governo Berlusconi, ha portato all'esecutivo tecnico di Monti. Un governo che, appiattito all'egemonismo tedesco, con le sue misure economiche, dalla riforma del lavoro a quella delle pensioni e con l'introduzione dell'Imu, ha esagerato. Ha fatto overshooting, più del necessario, sovradimensionando l'entità delle manovre e compromettendo il raggiungimento degli obiettivi. E l'economia reale sprofondava sempre più.

Siamo andati così a elezioni a febbraio. Per 60 giorni l'Italia non ha avuto un governo; le prospettive di accordo tra i partiti inesistenti; difficoltà mai viste per eleggere un presidente della Repubblica. E lo spread andava giù. Si è iniziato a capire che non dipende dai governi e dai fondamentali economici, ma dalla politica economica europea e dalla politica monetaria Bce. Il 29 aprile si è formato il governo Letta. Grandi aspettative ma a distanza di 8 mesi il bilancio è pessimo. Una strategia questo governo non ce l'ha, e lo abbiamo visto nella legge di Stabilità. Per usare le parole dell'(ex) vice-ministro Stefano Fassina: «C'è troppo governo Monti nel governo Letta».

Piena sintonia con il senatore a vita dimostrata sulla tassazione degli immobili, per cui non solo ha mantenuto l'Imu, ma l'ha ampliata, con l'introduzione di una vera e propria patrimoniale. Per cui se nel 2011 il gettito totale derivante dalla tassazione immobiliare in Italia ammontava a 10 miliardi e con Monti nel 2012 era arrivata a 24 miliardi, dal 2014 sfiorerà i 30 miliardi. Piena sintonia i due governi dimostrano nell'interpretazione che danno alla riduzione dello spread, perseverando nell'errore. Piena sintonia nell'aver distrutto l'economia e nell'essersi voluti impiccare al 3% del rapporto deficit/Pil. Per tutto il 2012 Monti e per tutto il 2013 Letta-Saccomanni ci hanno raccontato che se avessimo rispettato questo vincolo si sarebbero liberate risorse per investimenti e crescita. Lo scorso novembre l'Ue ci ha ricordato che di quelle ipotetiche risorse in più l'Italia non potrà beneficiare perché il debito è troppo elevato. Anni di sacrifici non sono serviti a nulla.

Che fare allora? Sono le 6 raccomandazioni che l'Europa ci ha fatto quando è stata chiusa la procedura di infrazione per deficit (portare a termine la riforma della Pa; miglioramento dell'efficienza del sistema bancario; riforma del mercato del lavoro; riduzione della pressione fiscale; liberalizzazione delle public utilities; sostenibilità dei conti pubblici). Possiamo realizzarli se nell'ambito dei Contractual agreements negozieremo le risorse necessarie per l'avvio di riforme volte a favorire la competitività del «sistema Italia».

L'Italia ha il dovere di farlo. E se sarà interlocutore forte presenterà programmi chiari nei costi (fino a 3 punti di Pil) e nei tempi (nell'arco della prossima legislatura), riuscirà a fare le riforme senza venir meno al rigore e alla sostenibilità dei conti.

Il Paese tornerà a crescere stabilmente a tassi superiori al 2%, con livelli occupazionali simili a quelli tedeschi e inglesi (almeno 3 milioni di posti di lavoro in più), taglio della spesa pubblica corrente per 80 miliardi in 5 anni e corrispondente riduzione della pressione fiscale dal 45% al 40%. Un vero rinnovamento, non solo anagrafico-generazionale. Un vero miglioramento. E lo spread, a quel punto, sarà solo un vecchio, tragico, amaro ricordo.

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