Fini, fine di un traditore

Il presidente della Camera ha capito che lo strappo dal Pdl non ha pagato. E quando i suoi lo invitano a dimettersi per guidare il partito resta dov’è

Fini, fine di un traditore
Sotto la poltrona niente. Or­mai non è più un sospetto. Forse perfino Gianfranco Fi­ni si è reso conto che tutto il suo pa­trimoni­o politico è quella presiden­za della Camera dove si è seduto gra­zie alla vittoria di Berlusconi nel 2008. È per questo che quando la sua pattuglia di uomini lo invita a di­mettersi, a lasciare il ruolo istituzio­nale e di scendere nell’arena politi­ca, magari prendendo davvero in mano le redini del partito, lui, vec­chio delfino da decenni in cerca di una consacrazione, si aggrappa a quella poltrona come fosse una zattera. È tutto quel che ha, come le medaglie d’ottone sul panciotto di certi sottufficiali di carriera, false ono­rificenze di battaglie mai com­battute. Fini non è stupido. Ha capito che lo strappo con Berlu­sconi non ha pagato.

Quel «che fai, mi cacci?» dove­va essere il gesto d’orgoglio di un numero due finalmente pronto a diventare grande, un colpo alle certezze del Pdl gettato sul tavo­lo per sparigliare le carte. Era, do­veva essere, la mossa furba del braccio destro che abbandona la nave prima di fare la fine del co­mandante e ricominciare un’al­tra vita senza più il peso del berlu­sconismo sulle spalle. Era, come è stato, anche il ripudio dei co­lonnelli che avevano condiviso con lui la metamorfosi del Msi, l’avventura di An e anni di fred­da amicizia. La certezza di rico­minciare da un’altra parte con la compagnia gracchiante di Boc­chino e Granata. Solo che il viag­gio è finito presto. Il Fli, con i suoi futurismi, era una barchetta sen­za rotta. Così dopo poche miglia ha gettato l’ancora nel primo por­ticciolo a disposizione, quello che con molta presunzione l’ar­chitetto Casini ha battezzato co­me grande centro.

La beffa per Fini è che come navigan­te vale come il suo alter ego, quel Francesco Rutel­li che sfidò nel 1993, quando Gianfranco sem­brava una promes­sa sicura.

Tutti e due a fare i vassalli a quella volpe post democristiana di Casini. Se un anno fa qualcuno ancora si chiedeva quanto pesa in voti il Fli, da un po’ di tempo si dava più o meno per scontato che era un partito leggerissimo. Volatile. Le amministrative di domenica e lunedì hanno dato l’ultima conferma. I pessimisti si sbagliavano per difetto. È anda­ta molto peggio. Si mormora di un due per cento a livello nazio­nale. Ma al di là di questo, l’evi­denza è che il Fli non conti nulla, non sposta, non entra in compe­tizione, è marginale come quei partitini che nelle percentuali fi­gurano nella casella «altri». Co­me una margherita nell’acqua di un vaso d’appartamento,sem­bra viva, ma è già defunta (che so­lo uno Stato in catalessi può con­tinuare a concimare fregandose­ne degli sprechi).

Fini per restare aggrappato al­la sua zattera ha lasciato a Casini il palcoscenico politico. È Pier­furby che si è inventato il grande centro. È lui in prima fila come sponsor dei tecnici. È la sua C a comparire nel pacchetto di mag­gioranza che sorregge Monti. È lui, sempre lui, quello che ha chiuso l’Udc per aprire il partito della nazione, ipotetico conteni­tore per il popolo dei moderati, con l’ambizione di fare concor­renza a Berlusconi sul suo terre­no. Ma anche in questo Fini ap­pare sfortunato. Non solo fa la fi­gura dell’eterno numero due, ma il suo principale non sta otte­nendo i successi sperati. Seguire la scia di Berlusconi gli aveva per­lomeno permesso di costruirsi una carriera.

Stare lì a succhiare le ruote di Casini significa inve­ce vivacchiare al centro del grup­po, sempre più stanco, sempre più invisibile. Gianfranco Fini al momento è quindi solo un ruo­lo. Tutto il suo peso politico è nel vestito blu che porta addosso. Il risultato è che ha l’appeal di un attaccapanni.

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