A Fiuggi 30 anni fa nasceva la destra di oggi

Fiuggi certifica che la destra ora al governo non è post fascista e ha lasciato demoni e ossessioni del passato ai suoi avversari politici

A Fiuggi 30 anni fa nasceva la destra di oggi

Trent'anni fa il passato sembrava più leggero di adesso, con la speranza che il Novecento davvero fosse al tramonto e le ferite si stavano in qualche modo rimarginando, lasciando cicatrici magari da portare, dall'una e dall'altra parte, con un certo orgoglio, ma con il disincanto di chi è stanco di guerre. C'era una certa fame di futuro, da guardare perfino con un certo ottimismo. I tempi, si diceva, stanno cambiando e in qualche modo bisogna adeguarsi. Il Pci dopo la caduta del Muro aveva cambiato nome e gli intellettuali della nuova sinistra si affannavano a sottolineare, con la beatificazione di Berlinguer, la via italiana al comunismo. La parola destra cominciava a non essere più uno spazio politico da lasciare ai confini della democrazia, ma come si era visto alle amministrative di Roma del 1993 un consenso con cui fare i conti. Nessuno pensa che il fascismo stia tornando. La svolta di Gianfranco Fini rispecchia il sentimento del tempo. L'Italia si può liberare dalle sue ossessioni. Non è la fine della storia, ma un tentativo di non lasciarsi ingabbiare dalle sabbie mobili del passato. I morti finalmente potevano seppellire i morti. Il dolore dello strappo, a destra come a sinistra, sicuramente c'era, ma era visto come inevitabile, quasi saggio. La ragione in molti casi zittiva il sentimento, senza però rinunciare a versare qualche lacrima.

Quel giorno a Fiuggi piangevano in molti. I vecchi, nello sguardo dei giovani, sembrano avere un'età sempre un po' indefinita. Amilcare non faceva eccezione. Doveva avere più di vent'anni nelle ultime stagioni del regime. Era cresciuto in camicia nera e aveva fatto la guerra, per un po' ci aveva pure creduto, poi era tornato a casa, restando in quella zona grigia di chi non stava né in montagna né sul lago. Il resto della sua vita l'aveva passata in campagna, proprio lì vicino. Il suo voto era sempre andato al «mis», il modo sbrigativo e affettuoso di chiamare il partito missino, non per nostalgia ma per onestà. Di quest'ultima cosa, a un paio d'anni da tangentopoli, era particolarmente orgoglioso. Non era un dirigente, ma era qui come delegato di un paesotto e poi perché comunque giocava in casa. C'era qualcosa di surreale in quella Fiuggi di trent'anni fa, 27 gennaio 1995. Il freddo dell'inverno ciociaro sembrava voler congelare anche il tempo, mentre dentro il Palazzo dei Congressi si consumava una rivoluzione silenziosa. Lo sapevano bene tutti: quello non era un congresso come gli altri. Era il momento della verità, il punto di non ritorno. Amilcare ascoltava in platea il discorso di Fini e tremava, non di rabbia, ma di smarrimento, come a uno che si stava spogliando dei suoi abiti e si sentiva nudo. «Sì, io sto con Fini, perché sono abbastanza vecchio per scommettere sul futuro o forse mi fido di lui, ma sento una voce dentro che bestemmia senza sosta». La svolta era necessaria, un modo per fare i conti con il tempo che stavano vivendo, quasi un atto di responsabilità politica, ma il sentimento era da un'altra parte. Tanti stavano con Fini, ma gli abbracci andavano a Rauti. È che in fondo si erano sempre sentiti dalla parte dei perdenti, anche adesso che cambiavano per giocarsi nuove opportunità, per uscire dal ghetto.

Le vecchie bandiere del Msi erano ancora lì, testimoni di un'epoca al tramonto. Fini le guardava con rispetto, ma con la freddezza di chi non si sente più il giovane delfino di Almirante. La destra italiana doveva cambiare pelle o rischiava di rimanere intrappolata nel suo stesso mito. È la teoria di Domenico Fisichella e del grande tessitore Pinuccio Tatarella.

I «colonnelli» di Alleanza Nazionale si muovevano nervosamente tra i corridoi. Gasparri, La Russa, Urso, Storace, Alemanno: ognuno portava addosso il peso di quella decisione. Sostenevano Fini, certo, e assaporavano l'uscita dall'età delle illusioni, con pragmatismo da uomini pronti a scavallare la linea d'ombra, come l'ufficiale di Conrad sul punto di prendersi la responsabilità dell'Oriente. Tutti faranno carriera. Pino Rauti, dall'altra parte della barricata, incarnava tutte le resistenze, le paure, i dubbi. La sua opposizione non era solo politica, era esistenziale. Come si poteva rinnegare mezzo secolo di storia? Come si poteva tradurre in linguaggio democratico un'esperienza che si era sempre definita «alternativa al sistema»? Fu proprio questo l'azzardo politico di Fini: non rinnegare, ma evolvere. Trasformare senza tradire. Il suo discorso al congresso fu un capolavoro di equilibrismo politico. Parlò di Almirante come un figlio parla del padre, ma anche come un figlio che sa di dover seguire la propria strada. Citò Croce e il conservatorismo europeo, tracciò una linea che dalla destra sociale portava al popolarismo moderno. La platea oscillava tra momenti di gelo e applausi scroscianti. C'era chi piangeva, chi protestava in silenzio, chi vedeva aprirsi nuovi orizzonti. La «svolta» non era solo un cambio di nome o di simbolo: era una mutazione genetica della destra italiana. I giovani del partito, quelli cresciuti più con Reagan che con il Duce, erano i più entusiasti. Per loro Fiuggi rappresentava la libertà di essere di destra senza sentire i fantasmi del passato. È da lì che arriva Giorgia Meloni. Fuori dal palazzo, l'Italia guardava con curiosità e scetticismo. Berlusconi osservava con interesse: quella metamorfosi gli serviva per legittimare definitivamente la sua alleanza con la destra. La sinistra, invece, faticava a credere che fosse tutto vero. La verità è che Fiuggi fu un azzardo calcolato. Fini aveva capito che il vento della storia stava cambiando direzione. Il crollo del Muro di Berlino, Tangentopoli, la fine della Prima Repubblica: tutto spingeva verso una ridefinizione degli schieramenti politici. La destra non poteva rimanere prigioniera di se stessa.

Cosa rimane oggi di quella svolta? Fiuggi certifica che la destra ora al governo non è post fascista e ha lasciato demoni e ossessioni del passato ai suoi avversari politici. È la sinistra che continua a tenere vivo il nome di Mussolini, come se quel ventennio fosse eterno. Non è avversione alla dittatura. È la paradossale ricerca della propria identità in antitesi a chiunque vinca le elezioni senza aver ricevuto una patente di legittimità dalla sinistra sconfitta. Questo, e ormai c'è il dubbio, sembra non avvenire mai. È la sinistra che si battezza democratica che finisce per rinnegare la democrazia. La svolta di Fiuggi permette poi alla Meloni di incarnare una destra, che può piacere o meno, che fa i conti con le questioni cruciali del presente.

È figlia di questo secolo e tende a scommettere sul futuro. Il passato è il campo dove si smarrisce, dove gioca in difesa, dove perde freschezza. Il 27 gennaio del 1995 Giorgia Meloni aveva compiuto da una dozzina di giorni diciotto anni e sognava una destra tutta da inventare.

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