La galera no, il buonismo nemmeno

La primareazione è di sconcerto. L’idea che si possa isolare un sedicenne dalla società civile per spedirlo nel profondo della Siberia, lontano da tutto e da tutti, allo scopo di «rieducarlo », è di quelle, diciamolo pure, che qualche brivido lo provocano. Anche perché il concetto di «rieducazione» (o addirittura dei «campi di rieducazione» ipotizzati dal governatore dell’Assia) abbinato a quello di Siberia, evoca per tutti i più tetri incubi del Novecento. Ma dal momento che con la violenza giovanile tutte le società occidentali devono da sempre fare i conti - gli squadristi degli anni Venti, i «teddy boys» degli anni Cinquanta, i «katanghesi» degli anni Settanta: a ogni epoca i suoi - ne consegue che la repressione è inevitabile.

Forse il sociologo e psicoanalista Claudio Risé vi direbbe che una certa dose di violenza fa parte dei «riti di iniziazione» dei giovani maschi, una necessaria fase di passaggio dall’adolescenza irresponsabile alla maturità. Ma è anche vero che, se la violenza di matrice ideologica negli anni tende a rientrare, quella che nasce da comportamenti criminali, da sola certamente non guarisce. Dunque prendiamo il sedicenne recidivo emandiamolo in Siberia, in un Paese senza televisione, né cellulari, né internet, né videogiochi. Solo. Costretto a dure fatiche fisiche come raggiungere la scuola camminando a piedi per chilometri o spaccare la legna per accendere la stufa. Per niente allettante,mapoi così terribile? Innanzitutto, la solitudine. È più solo un adolescente in un villaggio tra i boschi dove abita col suo tutore o nelle banlieue disperate delle città «civili»? È più indifferente nei suoi confronti la natura severa che occorre affrontare con fatica o la gang cui fa riferimento dopo lo sfacelo della famiglia e la perdita di ogni riferimento affettivo e morale? In una parola: la vera Siberia dov’è?

Certamente può apparire un po’ ingenua la fiducia nelle virtù terapeutiche di uno scoutismo obbligato. Mal’alternativa è rinchiudere l’adolescente nell’inferno dei riformatori dove la sua precoce vocazione criminale troverà le conoscenze e i mezzi più atti a svilupparsi adeguatamente. Senza contare le umiliazioni, le violenze private, la promiscuità sessuale, la droga che dilagano in questi luoghi. In fondo la decisione delle autorità dell’Assia riprende il concetto americano del lavoro socialmente utile inflitto come condanna. Non sappiamo se poi l’abbia veramente fatto, ma è probabile che lavorare come spazzina non sia stato del tutto dannoso per quella pisquanella con troppi dollari che è Paris Hilton, arrestata e condannata perché beccata al volante ubriaca. Non fa male riflettere una volta tanto sulla dignità del lavoro, per umile che sia.

Sedici anni sono pochi per essere già un criminale incallito. Ma sono abbastanza per capire che non la si può sempre fare franca.

Le misure forti e soprattutto insolite adottate dalle autorità tedesche sono in realtà più «umane» di quelle abituali: processi lenti, condanne tardive, permessi facili che nel giovane non possono che ingenerare una sfiducia totale nel sistema in cui è inserito e la certezza che lo potrà sempre gabbare. Più difficile ingannare il tempo, la neve, la fatica, lo sforzo necessario per sopravvivere decentemente. In una parola, se stesso. Quel se stesso che forse il giovane deviante può anche alla fine ritrovare.

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