Il declino dei liberali, uccisi dallo statalismo

Hanno lasciato ad altri le battaglie contro fisco, unificazione europea e libera concorrenza

Il declino dei liberali, uccisi dallo statalismo

Uno dei risultati più probabili che uscirà dalle urne di questo rinnovo del parlamento europeo sarà l'eclissi delle formazioni politiche che si autodefiniscono liberali. Nelle ultime ore le elezioni locali del Regno Unito hanno visto i liberaldemocratici subire perdite assai significative, ma è probabile che sia l'insieme dei partiti liberali a conoscere una netta contrazione dei suffragi.

Le ragioni di tutto ciò sono varie e alcune molto locali. È però possibile riconoscere qualche tratto generale in tale marginalizzazione di forze che, in passato, pure hanno avuto un discreto consenso: attestandosi quale terza forza entro il Parlamento di Bruxelles, dopo i popolari e i socialisti.

Uno dei motivi di tale sconfitta annunciata sta nell'inconsistenza di un liberalismo solo nominale, poiché nei fatti refrattario all'idea di difendere la proprietà privata, il mercato, la concorrenza. Da tempo la maggior parte delle forze politiche che in Europa si definiscono liberali ha perso ogni legame con il pensiero antistalista. Sulla scia di John Stuart Mill e di una vocazione «progressista» e «sociale» (segnata da una netta disponibilità ad accettare l'espansione del potere pubblico e la redistribuzione), i partiti che compongono l'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa - è questo il nome dei gruppo che riunisce le forze liberaldemocratiche - hanno abbandonato le ragioni originarie e in tal modo hanno pure smarrito ogni ragion d'essere.

In particolare, le due forze liberali maggiori - quella tedesca e quella britannica (che nell'ultimo parlamento europeo avevano 12 deputati a testa) - hanno mostrato un profilo sempre meno definito sul piano ideologico. Per «modernizzarsi» e provare a restare in sintonia con l'opinione pubblica à la page, questi partiti liberaldemocratici si sono aperti alle tesi dell'interventismo e in molti casi hanno offerto una versione moderata della socialdemocrazia europea, lasciando ad altri le battaglie contro il fisco, l'unificazione europea e la regolazione. Per questa ragione, non di rado sono stati taluni partiti conservatori o certi piccoli gruppi radicali a interpretare quei valori liberali in cui altri hanno smesso di credere.

E così proprio mentre la società europea nel suo insieme declinava sotto l'oppressione di burocrazie sempre più dirigiste, i partiti liberali si accomodavano a logiche tecnocratiche e si candidavano a gestire l'esistente, invece di opporsi a un processo tanto disastroso per le libertà e il benessere.

Questo spiega in larga misura come talune venature libertarie possano oggi trovare espressione - anche se spesso in modo confuso - più nell'Ukip di Nigel Farage che nei liberaldemocratici di Nick Clegg, più nell'Alternativa per la Germania di Bernd Lucke che nell'Fdp di Christian Lindner. Ma quello che avviene a Londra o a Berlino in parte si riscontra, con maggiore o minore intensità, in altre aree d'Europa. E d'altro canto se l'alleanza dei partiti liberaldemocratici europei ha tra i propri vicepresidenti un politico ben noto agli italiani come Leoluca Orlando, è ormai chiaro che la confusione è davvero grande sotto il cielo.

Il declino dei liberali, da tempo ben poco liberali e ora giustamente ben poco premiati sul piano elettorale, è indicativo della più generale crisi europea.

È più evidente che i partiti liberali europei sono ora alquanto deboli, ma quel che è peggio è che non sono interessati a interpretare la propria tradizione.

Di forze davvero liberali l'Europa ha bisogno e urgenza. Di questi liberali solo di nome assolutamente no.

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