
È l'intervista più difficile che abbia mai fatto. L'ho raccolta ascoltando la voce disperata e rotta dalla dal pianto del senatore Mario Occhiuto, e mentre la registravo sentivo scendere le lacrime. Impossibile rendere con le parole scritte l'immensità di questo dolore. Occhiuto è un architetto calabrese di 61 anni. È stato sindaco di Cosenza e ora è senatore di Forza Italia. Poco più di un mese fa, il 21 febbraio, suo figlio Francesco, 30 anni, si è suicidato lanciandosi dalla finestra dell'ottavo piano dell'appartamento di Cosenza. L'altro giorno è tornato al Senato per la prima volta, accolto da un gigantesco applauso.
Come sta, senatore?
«Come un chicco di grano nella macina, mentre la macina gira. È una citazione, a memoria, di Victor Hugo».
Avrebbe mai immaginato di dovere affrontare nella sua vita un dolore così grande?
«Mio figlio stava male da circa due anni. Ha avuto una prima crisi psicotica, poi una seconda».
Quando si è tolto la vita era in corso una crisi?
«Sì, era il terzo episodio psicotico. Io da quanto c'è stata la prima crisi avevo sempre cercato di stargli vicino, di non lasciarlo solo. Proprio perché avevo paura».
Quindi era già in allarme?
«Si. Lui era un tipo molto tranquillo, riservato. Poi ha avuto questa prima crisi psicotica. Era a Parma, a studiare. Fu una cosa improvvisa. Io corsi da lui quella stessa notte e da quel momento lo ho seguito passo passo. Lui era diventato fragilissimo. Si attaccava a me, mi abbracciava. Per me da quel momento è stato come se Francesco fosse nato una seconda volta».
È venuto a vivere a Roma con lei?
«Sì, lo ho portato a Roma. Aveva vinto una borsa di studio all'università di Tor Vergata. Io ero il suo unico confidente. Diceva a me i suoi pensieri e le sue paure. Le sue strategie per evitare ricadute».
Lui era consapevole di avere una malattia mentale?
«Si. Lui era psicologo. E voleva curarsi da solo. Non voleva prendere farmaci. Qualche volta lo ho costretto io».
Perché non prendeva farmaci?
«Diceva che erano medicine vecchie, degli anni settanta. Che la medicina per la mente non aveva fatto nessun progresso scientifico. Diceva che i farmaci toglievano le emozioni. Che erano dannosi».
Le parlava di queste sue debolezze?
«Certo, me ne parlava. Mi diceva: Papà tutti pensano che io lavoro poco, e che ho poche relazioni. Non capiscono quanto lavoro io per non impazzire».
E lei come reagiva?
«Io cercavo di sminuire, pensavo di tranquillizzarlo, gli dicevo che in fondo erano cose normali. Forse in questo ho sbagliato. Forse dovevo essere più drastico. Dovevo costringerlo a farsi curare. Lui invece pensava che questi problemi doveva risolverli da solo. Perché diceva che ciascuno di noi è unico».
Non andava dal medico?
«Si, l'ho portato da molti medici, ma non ha mai avuto una diagnosi vera e propria. Purtroppo queste malattie restano sempre misteriose. Non se ne parla. C'è lo stigma sociale. Sono molto più diffuse di quel che si sa. Nei prossimi mesi voglio occuparmi di questo. Penso anche a una fondazione da intitolare a Francesco».
Lei si è occupato molto di lui in questi due anni?
«Per me, tutti i giorni, il primo pensiero era Francesco. Sempre, dalla mattina quando mi svegliavo. Condividevo anche tutta la sua profondità. Lui mi ha lasciato molte cose. Io avevo troppa fiducia in lui. Lì ho sbagliato».
Lei sa descrivermi il suo dolore?
«Con lui non c'era solo un legame di sangue. Era un legame d'amore. Oggi mi manca anche fisicamente. Ho un blocco nello stomaco. So che questo dolore durerà per sempre».
Dove trova la forza per convivere con questo dolore?
«Non ho una risposta. Il dolore è costante, il pensiero è costante. E io non voglio che si affievolisca. Lo difendo questo dolore. Se avessi potuto io avrei voluto essere al suo posto. L'amore che avevo con lui era speciale, indescrivibile. Da quando è stato male è sempre cresciuto».
Lei ha altri due figli
«Si, li adoro. Ma l'amore per Francesco era particolare».
Che bambino era Francesco?
«Un bambino dolcissimo. Leggeva molto. Disegnava. Da piccolissimo leggeva Dante e voleva visitare i musei di Barcellona».
In questi ultimi mesi soffriva molto?
«Si, soffriva. Lui piangeva, io lo abbracciavo».
Tra i fratelli che rapporti c'erano?
«Il fratello al contrario di me pensava che avesse bisogno di farmaci. Erano molto legati».
La famiglia aiuta quando avvengono queste tragedie?
«Anche senza dircelo ci teniamo per mano. I miei due figli, mia moglie. Loro mi danno forza».
Cosa vorrebbe oggi?
«Io vorrei solo sapere che mio figlio stia bene».
Lei era in casa quando Francesco si è gettato dalla finestra?
«Quando è successo ero con lui. Ho visto che era in corso questa crisi paranoica. Ho chiamato il medico. Gli abbiamo dato i farmaci. Ma i farmaci non fanno effetto subito. Il pomeriggio si è messo a dormire. Poi ha detto che voleva fare una passeggiata. Sembrava tranquillo. Siamo andati insieme, mi ha chiesto di non parlare. Dopo 300 metri è voluto rientrare. Io sono andato un attimo in camera mia. Un attimo, proprio un attimo. E lui in quell'attimo ha aperto la finestra e».
Aveva deciso così...
«Quando aveva queste crisi non era in lui. Di solito io lo abbracciavo, lo stringevo. Se lo avessi abbracciato anche questa volta».
Che rapporto sente di avere oggi con lui?
«Io sono connesso con lui. Qualunque cosa faccia io rivedo lui, le cose che abbiamo fatto insieme, sento le cose che ci dicevamo, ripenso alle sue parole, alle sue idee. Ho un pensiero fisso: ricongiungermi a lui».
Che speranza le resta?
«Che il dolore, che è pieno d'amore, resti: ma resti solo come amore».
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