La libertà di parola, sulla quale in astratto siamo tutti pronti a batterci fino all'ultima sillaba, non sta benissimo. In tempi di guerra come i nostri anzi: di guerre, al plurale i confini della libertà di pensiero tendono inesorabilmente a restringersi. «Tutti hanno diritto a esprimere un'opinione, però...». «Il confronto fra idee è sacrosanto, ma...». «Bisogna distinguere».
Intanto fra «ma», «però», e «distinguo» Moni Ovadia per le sue parole rischia il posto di direttore del Teatro di Ferrara, la redazione di Charlie Hebdo è costretta a lavorare sotto protezione in un luogo segreto, Bruxelles impone a Elon Musk di autocensurarsi, il generale Vannacci è contestato a Lucca e Patrick Zaki è stato rimbalzato da Fabio Fazio, cancellato dall'inaugurazione del Festival della Pace a Brescia e traslocato «per opportunità...» - da un posto all'altro al Salone del libro di Torino.
A proposito. Persino Giuliano Ferrara ha richiamato all'ordine la nuova direttrice del Salone, Annalena Benini, per aver offerto un pulpito all'attivista egiziano scivolato su imbarazzanti posizioni anti-Israele. Lei ha giustificato la scelta ricordando la tradizione liberale del Lingotto: «Ascoltare e far parlare». Giustissimo. Tranne, naturalmente, quando ci fu da espellere l'editore di destra Altaforte o zittire la ministra Eugenia Roccella.
Ah, certo, non era la stessa cosa.
«Sì, ma...». «Va bene, però...». «Bisogna distinguere».
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