Ingroia, il pm che non rinuncia ai cortei

La Fiom chiama a raccolta tutti gli antagonisti in funzione anti Pd. Ma i magistrati non possono manifestare

Ingroia, il pm che non rinuncia ai cortei

Non s'era mai vista una manifestazione così imponente contro il Partito democratico, e per di più nella mitica piazza romana di San Giovanni. Tutta la sinistra di lotta e di autogoverno s'è raccolta intorno a Maurizio Landini, l'eroe della Fiom e dei talk show che piacciono alla gente che piace, per mettere sotto pubblico e popolare processo la scelta del Pd, sofferta e in gran parte subìta, di compiere un tratto di strada comune insieme al Pdl.

All'appello della Fiom, la rocca fortificata del movimento operaio che fu, hanno risposto grandi e piccini: Sinistra e libertà al gran completo con un Vendola radioso («Non do consigli ad Epifani, dico solo che sono di sinistra e se non vengo al corteo della Fiom non so dove altro potrei andare»), i comunisti combattenti di Ferrero e di Diliberto, il presidente mancato Stefano Rodotà (che dopo le medaglie grilline ha ricevuto anche la tessera onoraria della Fiom), l'immancabile Gino Strada, il valdostano renitente Antonino Ingroia (ma i magistrati possono andare in piazza?) e - novità politica di non poco conto - un certo numero di parlamentari e simpatizzanti del Movimento 5 stelle.
«Non capisco - ha scandito Landini fra gli applausi - come si possa essere al governo con Berlusconi e avere paura di essere qui». L'imputato contumace è il Pd, e sebbene la manifestazione fosse sulla carta «per il diritto al lavoro, all'istruzione, alla salute, al reddito, alla cittadinanza, per la giustizia sociale e la democrazia», in realtà è stata tutta contro il governo. O meglio: contro l'idea stessa di un governo Pd-Pdl, a prescindere. Così, l'assenza dalla piazza è diventata agli occhi dei manifestanti la prova provata del tradimento: «Chi non c'è parla da solo», ha minacciato Landini.

In realtà qualcuno del Pd in piazza c'era, e neppure dei meno importanti se si guarda all'imminente campagna congressuale: hanno sfilato con gli irriducibili il «giovane turco» Matteo Orfini e l'ex ministro Fabrizio Barca, ambizioso candidato alla segreteria, insieme all'intramontabile Sergio Cofferati, che si è pubblicamente lamentato per l'assenza del suo partito. Ma la loro presenza, certamente calcolata ai fini delle personali carriere, ha assunto il carattere di una sfida interna e di un posizionamento futuro che darà molto filo da torcere al governo.

La verità è che il Pd è il ground zero della politica italiana e l'elezione di Epifani alla segreteria appare sempre più, col passare dei giorni, il fragile tentativo di coprire l'assenza di una linea politica con un'assenza di leadership. Non c'è, né al Nazareno né nelle assemblee parlamentari, un gruppo dirigente cosciente della situazione e del proprio compito. Nessuno ha mai fatto un'analisi anche superficiale della sconfitta elettorale e della situazione che ne è scaturita. Nessuno ha saputo spiegare con convinzione e ragionevolezza la necessità del governo Letta. Nessuno è stato capace di coglierne il valore positivo e di scorgervi l'occasione per una ridefinizione del sistema politico capace di portare vantaggi a tutti.

Al contrario, il corpaccione democratico ha subìto passivamente la nascita del governo e ogni giorno continua a subirne l'esistenza, vergognandosi in privato e in pubblico. «Noi siamo la parte migliore del paese», ha detto a un certo punto Landini: come a significare che il Pd sta invece con la parte peggiore. Epifani avrebbe dovuto rispondere a muso duro, e invece - siccome concorda in cuor suo con Landini sull'appartenenza alla «parte migliore» - ha chiesto goffamente scusa: «Non importa esserci, importa dare le risposte». Che è un po' come ammettere: il Pd non c'è (più), e se c'è dorme.

A San Giovanni non è nato un nuovo partito (non ancora, almeno), ma è stato gettato il seme di un nuovo governo, o almeno di una nuova maggioranza possibile. L'adesione dei Cinque stelle alla manifestazione è un inedito assoluto, e segna una tappa importante dell'Opa grillina sul Pd. Con un'indubbia e divertita abilità tattica, Grillo ha mandato Bersani a schiantarsi due volte, prima con il suo «governo di cambiamento» e poi con la candidatura di Prodi al Quirinale: e ora che il Pd è al governo col Pdl, è pronto a prendersi tutti gli scontenti per ricominciare dalla casella iniziale.

Che è, manco a dirlo, l'antiberlusconismo della «parte migliore» del Paese. Grillo, del resto, l'ha detto con chiarezza: al prossimo giro, quello finale, ci saremo soltanto noi e il Cavaliere. Stupisce che il Pd non sollevi obiezioni.

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