«Non sono io l'assassino, ma nessuno mi crede. Sto impazzendo, tengono in cella un innocente...». Dall'oltretomba del carcere dove vegeta sepolto sotto una serie di indizi, parla Francesco Furchì, il presunto attentatore di Alberto Musy, il consigliere comunale dell'Udc a Torino ridotto in fin di vita sotto casa. Esattamente un anno fa a sparargli contro fu un uomo che indossava un casco e che entrò nel condominio fingendo di dover consegnare un pacco. Dieci mesi dopo, per quell'attentato, hanno arrestato Furchì, presidente dell'associazione Magna Grecia e ex candidato di una lista civica che appoggiava Musy alle comunali del 2010. Per gli inquirenti fu lui a sparare per odio e vendetta.
Da un mese lei è in carcere...
«Non sono io il killer».
Ha cercato di ricostruire quanto è accaduto? Cosa fece quella mattina?
«Nonostante gli sforzi non riesco a ricostruire al minuto i miei spostamenti del 21 marzo 2012. Conservo il ricordo della notizia dell'attentato ad Alberto Musy e gli spostamenti successivi. D'altra parte sono passati 11 mesi ed ho spesso sovrapposto vari accadimenti. Non ho avuto possibilità di confrontarmi con chi, forse, avrebbe potuto aiutarmi a ricordare».
Gli inquirenti la descrivono come un faccendiere e un uomo violento, la sua stessa famiglia non è stata tenera...
«Un faccendiere che per centinaia di persone è invece una persona impegnata nel sociale che organizza incontri e convegni in favore della mia terra d'origine, la Calabria. Centinaia di alte autorità - che oggi, ovviamente dicono di non conoscermi - hanno approfittato della visibilità nei convegni da me organizzati. Mi sono reso conto di essere circondato da una serie di approfittatori ipocriti. Non mi sono arricchito, ho beneficiato di contributi pubblici senza approfittarne come dimostrano le mie precarie condizioni economiche. Mia moglie? Mi addolora il suo atteggiamento di odio profondo dopo aver saputo di un deprecabile tradimento».
Sostiene di essere un capro espiatorio. Ma perché proprio lei?
«Col mio arresto i magistrati hanno voluto dare una risposta all'opinione pubblica in cerca di giustizia. Ciò che è sorprendente è che quattro giudici imparziali hanno creduto al pm anche in assenza di prove certe. Hanno scelto me perché evidentemente rispondo meglio di altri al tipo di attentatore immaginato dai pm».
Quali erano i sui rapporti con Musy? È vero che si è sentito tradito?
«Ero amico di Musy e ne avevo stima come professionista e politico. Certo, non mi aveva trattato con la stessa considerazione che io nutrivo per lui ma ciò è tipico di ogni politico. Se avessi dovuto agire sotto la spinta di delusioni da parte di politici sarei dovuto uscire di casa con un mitra e compiere una strage. Ho sostenuto, anche in Piemonte, molti dei protagonisti della vita politica regionale - anche loro oggi totalmente defilati - ricevendo, dopo le elezioni disattenzione o scarsa considerazione. Ma non per questo ho sparato».
Uno dei moventi sarebbe la sua delusione per il mancato affare Arenaway, società ferroviaria fallita che lei voleva rilevare con alcuni imprenditori...
«La prima persona alla quale avevo proposto l'affare Arenaways era stato proprio Alberto che l'aveva reputata interessante. Quando mi disse che i gruppi che aveva interessato anche attraverso terzi non erano disposti a investire nell'affare, mi diressi verso altre possibilità, poi tutte svanite. Forse avrei potuto ricoprire una carica importante, ritenevo di meritarlo dopo aver aiutato gente che non conosce la gratitudine. E allora? Perché avrei dovuto ritenere Alberto Musy responsabile del fallimento? Mi chiedo, e vi chiedo: le cose devono avere un senso logico oppure devono vivere di ricostruzioni false?».
Il suo comportamento dopo l'attentato, il fatto che non abbia mai partecipato a iniziative pubbliche di solidarietà per Musy è letto come un elemento a supporto della sua colpevolezza...
«La notizia dell'attentato di Musy mi ha sconvolto. Oggi fa specie la circostanza che non ne ho approfittato ponendomi come protagonista al centro della vicenda. E se lo avessi fatto avrebbero scritto che il mio protagonismo era la spia del mio coinvolgimento. Solo congetture. Me lo hanno spiegato i miei avvocati Giancarlo Pittelli e Mariarosaria Ferrara, argomentazioni suggestive ma distanti dalla nozione di indizio, inserite buttate nel contesto in un atto d'accusa senza fondamento».
Lei non si è mai messo in contatto con la famiglia Musy dopo l'attentato, c'è qualcosa che vorrebbe dirle?
«Quando sarà provata la mia innocenza indirizzerò alla famiglia Musy i miei pensieri. Oggi dico loro di profondere tutte le loro energie perché l'indagine non si fermi a un comodo colpevole che non è il vero responsabile di quanto accaduto ad Alberto. La lontananza dalle mie figlie è la condizione di maggiore sofferenza. Sto soffrendo come un cane. Ma un giorno, ne sono certo, la ricostruzione dell'accusa sarà smentita e molti dovranno vergognarsi, specie quanti hanno riferito fatti spaventosamente falsi».
Una lettera-appello drammatica. È quella spedita da Angelica Musy al sindaco di Torino Fassino, per chiedere di aiutare il marito a dimettersi da consigliere comunale, visto che lui non può farlo.
«Sono sicura - scrive la donna - che se Alberto si accorgesse di non essere più in grado di svolgere le funzioni pubbliche di consigliere, non esiterebbe a rassegnare le dimissioni». Ma non può firmare né delegare, perché non è cosciente. «Spero che la saggezza di governo vi faccia trovare nella legge la soluzione perché Alberto possa abbandonare la carica».
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