Il paziente inglese non si cura a dovere. E neppure quello italiano, sembra di capire. Ma non solo per impazienza, cattiva volontà o amore per il rischio, anche e soprattutto perché non capisce che cosa gli dice o gli prescrive il medico. Strano, perché i dottori di solito hanno una grafia chiarissima; e altrettanto trasparenti sono le loro diagnosi e le loro indicazioni terapeutiche. Scherziamo, naturalmente. Chi di noi, infatti, non si è chiesto almeno una volta perché mai i sacerdoti di Esculapio non parlino come gli altri comuni mortali o non stilino le ricette in modo intelleggibile anche ai non farmacisti?
Certo, ogni categoria professionale ha il suo gergo e i suoi tic lessicali, spesso misteriosi per il resto del mondo. Ma i medici - e i redattori dei foglietti «informativi» dei farmaci - a volte esagerano con i tecnicismi, le sigle, le formule e i termini presi di forza dal greco classico o dalle pagine di Aulo Cornelio Celso, estensore del De Medicina, un trattato che solo latinisti valenti quanto il conte Giacomo Leopardi potevano considerare comprensibilissimo.
Si diceva degli inglesi. Secondo una ricerca condotta dalla London South Bank University, per circa 20 milioni di sudditi di Elisabetta II, circa il 43 per cento dei pazienti, i medici sembrano parlare un'altra lingua: le prescrizioni sono troppo complicate, piene zeppe di parole letteralmente inaudite, ovvero mai sentite prima. E molti di loro, i pazienti, ritengono imbarazzante chiedere chiarimenti sul dosaggio di un farmaco o su dove effettuare gli esami prescritti. E allora preferiscono lasciar perdere, con conseguenze per la loro salute che possono essere anche gravi.
In Italia ricerche analoghe non ne sono state svolte. Ma secondo gli addetti ai lavori il problema esiste ed è sentito. Almeno dai medici che tengono più a farsi capire che a farsi ascoltare e ad ascoltarsi. Come Claudio Cricelli, il presidente della Simg (Società italiana di medicina generale), che ha lanciato l'allarme non tanto per i malati cronici come diabetici e ipertesi, che frequentando più spesso gli studi medici possono essere meglio monitorati sull'andamento della terapia, ma soprattutto per i malati «neofiti», cioè quei pazienti magari giovani con una patologia acuta che più facilmente possono fare confusione con i farmaci e sono più restii a chiedere spiegazioni al medico, finendo per trascurarsi. Paradossalmente, quindi, sarebbero più a rischio i giovani, meno esperti di pastiglie, posologie, controindicazioni e indagini cliniche. Però c'è un però. «Per quanto riguarda i pazienti cronici anziani ha spiegato Cricelli è necessario farsi comprendere bene dai cosiddetti care giver, cioè i familiari o le altre persone che prestano assistenza e danno materialmente le medicine». Un obbiettivo non poco ambizioso, perché, come ricorda lo stesso Cricelli, nove badanti su dieci sono straniere.
Giuseppe Paolisso, presidente della Sigg (Società italiana di geriatria e gerontologia), invece, sostiene che siano gli anziani la categoria che con maggiore difficoltà è in grado di comprendere autonomamente le prescrizioni del medico e le informazioni sui farmaci. «Spesso fanno confusione, scelgono il fai-da-te o utilizzano farmaci scaduti che conservano in casa, con conseguenti effetti collaterali nel 50/60 per cento dei casi ricorda il presidente Sigg . Per questo servirebbe da parte del medico un maggior impegno a semplificare, dove possibile, la modalità di assunzione dei farmaci.
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