Chi è il più democristiano del reame? Il rumoroso Matteo Renzi, l'enfant prodige scaltro e impertinente, battutista e presenzialista, che in meno di due anni ha sbriciolato la roccaforte bersaniana e oggi medita la conquista definitiva del Pd, oppure il silenzioso Enrico Letta, il secchione cui ogni madre sarebbe felice di dare in sposa la figlia, l'uomo delle relazioni e delle istituzioni capitato senza averlo chiesto a palazzo Chigi e intenzionato a rimanervi? Certo è che in casa democratica i protagonisti incontrastati sono loro: e chissà che l'altro giorno, nel lungo incontro sulla torre di Palazzo Vecchio, non abbiano ironizzato, con meritato compiacimento, sullo strano destino della sinistra post-comunista, che dopo un ventennio di sconfitte si arrende infine a due ex giovani Dc di belle promesse.
Il più democristiano appare a molti Letta: per la lunga frequentazione del potere coltivata fin dalla più tenera età, per l'ampiezza delle relazioni costruite lungo una sequenza sterminata di convegni, centri studi e seminari, per l'innata moderazione dei toni, dei ragionamenti, delle proposte. Ma si potrebbe anche sostenere il contrario: e rintracciare nella disinvoltura di Renzi, nel primato incontrastato che assegna alla tattica, e persino nel tono a tratti predicatorio e magari messianico, la natura più autentica della Dc: una spregiudicata furbizia al servizio del potere.
«Se il governo fa le cose, bene: altrimenti il governo va a casa», ha detto ieri pomeriggio Renzi, a meno di 24 ore dal «patto» siglato con il premier. E ha aggiunto: «Se Letta cambia l'Italia io sto con Letta». E siccome non è certo questo il modo più convincente per sostenere il governo, viene subito da chiedersi quanto solido sia il «patto» tra i due, e addirittura se ci sia davvero. E qui entra in campo la democristianità. Che non è tanto una visione del mondo, quanto un modo di stare al mondo. Letta e Renzi sono costretti a convivere non dalle buone maniere ma dall'interesse reciproco: il primo sa che con il sindaco di Firenze all'opposizione il suo tentativo di grande coalizione franerebbe rapidamente; il secondo ha bisogno del premier per sbaragliare il blocco bersaniano, prendersi il Pd e consolidare la propria leadership. Dunque l'accordo c'è: e ci sarebbe anche se non l'avessero discusso a quattr'occhi.
Ma sottoscrivere un patto non significa che i contraenti se ne restino con le mani in mano. Proprio quel realismo che suggerisce di non farsi la guerra impone anche di non siglare nessuna pace definitiva. Semmai, il «patto» è lo spazio al cui interno ci si può, e anzi ci si deve punzecchiare, sfruttando a proprio vantaggio ogni situazione per migliorare il proprio posizionamento a svantaggio dell'altro: senza però mai spingere l'attacco fino in fondo, senza mai colpire a morte l'avversario. E qui di nuovo torna in campo la democristianità. Il duello infinito ingaggiato per tutta la Seconda repubblica da Veltroni e D'Alema ha trascinato la sinistra in una sequenza pressoché ininterrotta di sconfitte, perché ogni volta che uno dei due - direttamente o attraverso un suo uomo - conquistava una posizione di potere, l'altro si metteva sistematicamente al lavoro per distruggerla. I duelli a sinistra non lasciano prigionieri, ma solo macerie. I duelli democristiani hanno sì un vincitore, ma mai un vero sconfitto. Si spiega così la longevità della Dc nella Prima repubblica, e l'instabilità cronica della sinistra nella Seconda. E si spiega anche perché i figli del Pci si sono progressivamente logorati fino ad autodistruggersi, mentre i figli della Dc - appena tollerati, fino a ieri, come i sopravvissuti a un naufragio finalmente convertitisi sulla zattera che li recava in salvo - hanno conquistato il Pd. Se l'accordo-duello fra Renzi e Letta dovesse produrre i risultati che i due, separatamente, si augurano, la storia della sinistra italiana cambierà per sempre, e agli eredi del Pci, finora egemoni, toccherà un destino di comprimari, non dissimile da quello degli odiati cugini socialisti.
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