Roma - Considerata la penuria, considerato il marcato interesse per famiglie in bolletta e giovanotti a spasso, quello sul lavoro doveva essere il fiore all'occhiello di tutte le «renzate». Altro che Italicum: è sul Jobs Act che si misura lo stato dell'arte.
Non buono, a giudicare dai passi trionfali in partenza, dagl'incespicamenti subitanei, dai tira-e-molla, dalla palude nel quale è stato abbandonato il disegno di legge e, da ultimo, dal ricorso al voto di fiducia per far passare alla Camera (dove la maggioranza avrebbe numeri da Caterpillar) il decreto legge con i provvedimenti più urgenti. Così ieri - non sfugga la data parafestiva, oggetto di polemica - sono arrivati i 283 voti a favore contro i 161 contrari e un astenuto, che consentono al decreto di arrancare verso il Senato. Dove si avvia a essere affossato dalla stessa maggioranza, pronosticavano in Transatlantico molti deputati sconcertati (maggioranza e opposizione).
In effetti il circuito messo in piedi dal governo non è stato dei più felici. Il decreto concordato dal ministro Poletti con gli alleati veniva poi ritoccato in commissione per recuperare il dissenso della sinistra pidì («Ma non l'abbiamo snaturato, purtroppo», si rammaricava Fassina). Fondamentale la mediazione tra Poletti e Damiano: due che, fino a qualche decennio fa, portavano in tasca la stessa tessera del Pci. Il testo arrivava in aula perciò un po' orfano, con Delrio impegnato a non perdere nessun pezzo, il premier Renzi che se ne restava alla larga, e i cespugli («poco di lotta e molto di governo», ironizzava l'azzurra Gelmini) che annunciavano un «sì» pirandellianamente già pronto a tramutarsi in moneta di scambio a Palazzo Madama. Là dove la maggioranza è appesa a un filo e il potere di ricatto è ben più cospicuo. «Votiamo a favore - tuonava (si fa per dire) l'ex ministra De Girolamo -, ma a patto che nel passaggio al Senato il decreto venga corretto». Abbandonare il governo?, per caritàdidiopropriono. «La nostra fiducia non verrà meno per un mero capriccio, ma chiediamo pari dignità...».
Con chiari di luna del genere, non poteva mancare il tocco pittoresco della bagarre. Il deputato cinquestelle Walter Rizzetto aveva appena citato la frase di Roosevelt sulla «vera» libertà individuale («Non può esistere senza la sicurezza economica e l'indipendenza»), che i suoi colleghi alzavano le mani componendo la scritta «Schiavi moderni» facendo spuntare delle catene (di plastica) ai polsi. Tanta irrequietezza solleticava l'acidità metabolica della presidente Boldrini, ancora una volta prontissima nel chiedere l'intervento dei questori contro coloro che sono diventati la sua bestia nera. «Vabe', avete dimostrato abbastanza il dissenso, adesso dobbiamo continuare i nostri lavori...», tagliava corto. Apriti cielo. Fioccavano interventi anti-Boldrini, urla e lamentele incrociate. Boldrini sempre più spazientita rispondeva con dei «ho capito» di sufficienza che irritavano vieppiù i grillini. Il deputato Cominardi non vedeva l'ora di sventolare in faccia alla presidenza il regolamento reclamando la propria idea di francesismo: «Questa non è carta da culo!», gridava. All'esaurimento degli animi, ecco infine spuntare una frastornata Binetti che aveva capito trattarsi di catene vere. «Ma ogni giorno vengono controllate le nostre borse, com'è possibile che siano entrate catene senza che nessuno se ne sia accorto?», chiedeva.
E la Boldrini, inflessibile, assicurava che «su questo verrà fatta chiarezza al più presto». Sconcerto diffuso: «Ma sono di plastica, mica i metal detector suonano». La legge è legge (ma del lavoro non c'è traccia). Al fin della fiera, si ride. Amaro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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