Mezze verità e bugie interne: il rischio dei juke-box a pagamento

Salvatore Baiardo è considerato un pagliaccio da chi conosce le cose di mafia, e Massimo Giletti doveva saperlo, prima di offrire un palcoscenico per le sue mezze verità.

Mezze verità e bugie interne: il rischio dei juke-box a pagamento

Salvatore Baiardo è considerato un pagliaccio da chi conosce le cose di mafia, e Massimo Giletti doveva saperlo, prima di offrire un palcoscenico per le sue mezze verità. Baiardo fa parte di quei «pentiti di allevamento, dei veri e propri juke-box» che rateizzano le loro rivelazioni alla bisogna, «nei quali certi pm mettono la monetina, tirano la leva e chiedono di cantare la canzone vogliono sentire», per usare le parole pronunciate da Silvio Berlusconi al Maurizio Costanzo Show, quando per la prima volta venne ipotizzato il suo coinvolgimento nella strage di via D'Amelio dal pentito con le mani sporche del sangue di due dei figli di Tommaso Buscetta. Giletti doveva sapere che quando a fine '94 Baiardo si offrì agli inquirenti per raccontare le indicibili verità di cui si faceva custode, la sua attendibilità durò lo spazio di un battito di ciglia e venne rispedito al mittente da Giancarlo Caselli. «Bisogna verificare con estrema cura l'esattezza delle loro rivelazioni, senza sminuire sistematicamente quanto affermano», scrive Giovanni Falcone in Cose di Cosa nostra. Ai pentiti il giudice saltato in aria a Capaci diceva: «Questo interrogatorio sarà il suo calvario perché cercherò in ogni modo di farla cadere in contraddizione». Questo vale per i pm come per i giornalisti. Ma Baiardo quel calvario non l'ha mai superato. Un supersbirro come Francesco Messina definisce il gelataio palermitano «una figura ondivaga», uno dei tanti «manutengoli dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che lo usavano come autista». Gentaglia da cui stare alla larga, non da invitare in tv. Ma, come si sa, ci sono magistrati talmente innamorati di certe canzoni che sono disposte ad ascoltarle anche da chi è stonato. E la «benedizione» della Procura di Firenze, che ha interrogato Giletti due volte, rafforzando così la credibilità delle balle di Baiardo, ne è la migliore conferma. Ma il B-movie del menù verbale ormai stucchevole - pezzi dello Stato, settori deviati, zone d'ombra, menti raffinatissime, trame oscure, segreti inconfessabili, intrecci scellerati - scritte con il fine non dichiarato di riscrivere la storia d'Italia per via giudiziaria ha stancato un po' tutti, soprattutto quando l'infamia di chi ridimensiona la portata delle indagini che hanno portato alla cattura di Matteo Messina Denaro si allarga ai coraggiosi investigatori dei Ros. Giletti ne esce da martire («L'Italia non è ancora pronta ad ascoltare certe verità, fa più comodo tenerle nei cassetti»), magari tornerà in Rai, ma siccome non è uno sprovveduto non può piangere se il fango che ha piazzato nel ventilatore - innescando un cortocircuito investigativo che avrà strascichi dolorosi - gli ha macchiato l'immagine.

Per fortuna a ungergli il capo con il sacro olio forcaiolo che tutto smacchia è Marco Lillo del Fatto quotidiano, che sorvola sui soldi dati a Baiardo («cosa magari non bella, ma lecita»), ammettendo implicitamente che certi juke-box, senza monetine, non cantano.

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