Siccome le lingue, come le religioni, vivono di eresie, in tanti hanno cercato di definire il «berlusconese», ovvero la rivoluzione del linguaggio politico introdotta dal Cavaliere con la sua discesa in campo. Perché oltre alla tv, al calcio, all’imprenditoria e all’editoria, anche nella comunicazione la sua impronta è stata profonda, anche se forse più «sotterranea».
La punta dell’iceberg è quel «mi consenta» con cui spesso Silvio Berlusconi apriva i suoi interventi. Un vezzo, ma anche un intercalare delicatamente borghese, un velo di umiltà a introdurre l’ego inevitabilmente immenso di chi nella vita aveva pensato di tutto e realizzato qualcosa in più. Così come altrettanto iconico era il suo commiato, quel «buon lavoro» ripetuto a tutti, come a ricordare e condividere una scala di valori eternamente lombarda, in cui la realizzazione e la vita passano attraverso il lavoro.
Già, le radici lombarde e orgogliosamente italiane.
Nel suo discorso della «discesa in campo», quello del celebre incipit «l’Italia è il Paese che amo», Berlusconi citava «radici», «speranze» e «orizzonti». Che fanno il paio con un altro concetto chiave di tutto il suo linguaggio, ovvero l’«ottimismo», da cui discende una gioiosa e trentennale collezione di espressioni positive, ingiustamente bollate come slogan da televenditore dai suoi detrattori semiotici. «Il miracolo italiano», «un milione di posti di lavoro», «il Vangelo secondo Silvio», «il governo dei record»: è un catalogo iridescente di iperboli da cui traspare la sua visione della politica. Che se da un lato è sempre stata fortemente centripeta e leaderistica, dall’altra era proiettata verso il futuro e la sfida. Utopia e protagonismo, senza alcuna paura: «Bisogna sempre tenere il sole in tasca per donarlo agli altri».
L’assenza di paura - per le parole, per il politically correct, per quella pesante calotta di seriosa austerità espressiva del politichese - è un altro cardine del «berlusconese». Che se retoricamente si è sempre affidato all’«accumulazione», ovvero la ripetizione di messaggi semplici tramite elencazioni e sinonimi, stilisticamente ha sempre giocato con la battuta e l’ironia. Obama «abbronzato», l’auto-celebrazione superomistica (e super-eroistica: «Nonno Superman») sono istantanee di un linguaggio figlio degli anni ’80, quando le astruse e magniloquenti costruzioni dei politici della Prima repubblica erano ormai insopportabili sia agli elettori, sia ai giornalisti.
Leggerezza e quotidianità, garbo che non rifuggiva qualche parolaccia da poco, veleni sugli elettori di sinistra o Rosy Bindi, peccatucci che il prete in confessionale ti perdona subito. Il «contratto con gli italiani» passava da qui, non solo dai documenti firmati da Vespa. Era un contratto di condivisione anche linguistica: il «giuoco» del calcio come si diceva una volta, il governo «tennico» come una certa generazione settentrionale ancora storpia periti, idraulici e affini, fino al grande babau condiviso, lo spettro dei comunisti.
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