Erano quelli i giorni del picconatore. L'estate era alle porte a Milano e faceva già particolarmente caldo. Era la infuocata primavera del 1991, quei giorni difficili, intricati e misteriosi che, chissà quanto inconsapevolmente, stavano già conducendo in modo inesorabile alla fine della prima Repubblica.
Francesco Cossiga dal Quirinale cominciò la sua crociata personale parlando di complotti finanziario-politico-affaristico-editoriali, "per riformare smantellare il regime, demolire i poteri occulti, affaristici, giudiziari e giornalistici" che soffocavano il Paese.
Erano i giorni della rivisitazione di Gladio e della P2, della Repubblica presidenziale lanciata da un Bettino Craxi non ancora travolto da Mario Chiesa e "Mani pulite", del referendum sulle preferenze alla Camera che cominciava ad aprire la strada al maggioritario e del battesimo delle facce nuove della Lega nord che proprio quell'anno effettuava il primo congresso della sua storia con lo slogan scioccante delle tre Italie: quella del Nord , quella del centro e quella del Sud.
Era questo il Paese quando il Giornale di via Negri era ancora saldamente per tutti, "il Giornale di Montanelli". Poco più di un mese prima era morto il senatore a vita Cesare Merzagora, e il vulcanico Cossiga senza pensarci su due volte aveva deciso di affidare il posto vacante al Senato all'amico direttore de "Il Giornale", allora ottantaduenne.
Ed altrettanto senza pensarci su due volte, Indro Montanelli (come aveva fatto prima di lui quarantadue anni prima solo il direttore di orchestra Arturo Toscanini) rifiutò, nello sconcerto generale, il prestigioso incarico.
Un uomo eternamente "controcorrente", simbolo di un giornalismo svanito completamente, testimone protagonista e mai imparziale del nostro ultimo secolo, aveva nella sua lunga vita accettato svariati riconoscimenti, di ogni tipo: nel 1992 fu il primo italiano ad essere nominato Comandante di I classe dell'Ordine del Leone di Finlandia (Suomen Leijonan I lk:n komentaja), nel 1994 ricevette l'International Editor of the Year Award della World Press Review, e nel 1996 ebbe il Premio Principe delle Asturie. Tutto andava bene, ma quello proprio no.
Certo, se quel "no" fosse venuto da un altro, si sarebbe forse parlato di snobismo inaccettabile. Ma quando, il 19 maggio 1991, Indro Montanelli rifiutò la nomina di senatore a vita, neppure i suoi più acerrimi nemici si permisero di infamarlo.
Quel passo indietro era in perfetta coerenza con il suo modello di giornalista "assolutamente indipendente, anzi estraneo al Palazzo che", scrisse al Quirinale, "per sessant'anni ho perseguito e, spero, realizzato".
"Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo concreto per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una distanza di sicurezza", scrisse a Cossiga. "Purtroppo, il mio credo è un modello di giornalista assolutamente indipendente che mi impedisce di accettare l'incarico".
Prima di lui aveva osato un affronto simile solamente Arturo Toscanini. Nominato il 6 dicembre 1949, diede il giorno successivo le dimissioni dall'incarico con una lettera al presidente della Repubblica Luigi Einaudi che lo aveva prescelto: "È un vecchio artista italiano turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina sia in profondo contrasto con il suo sentire", scriveva l'artista dichiarando il desiderio di finire la sua esistenza "nella stessa semplicità" con cui l'aveva trascorsa. In effetti il grandissimo interprete rifiutava l'atto riparatore della nuova Italia: si era allontanato da tempo all'estero dopo essere entrato in violento contrasto con il regime fascista sulle leggi razziali. Ma quelli erano altri tempi, e altri uomini.
Nel caso di Montanelli fu proprio l'integrità con cui ha sempre interpretato il mestiere a non permettere che su di lui venisse usata l'immagine della "bisbetica maestà dello sconfitto", come qualcuno potrebbe magari aver voglia di fare inchiodandolo a un destino da bastian contrario fedele a posizioni marginali e perdenti (così parevano le sue idee in quell'Italietta).
Nella lettera al presidente della Repubblica emerse sicuramente il suo gigantesco orgoglio, ma anche una quasi genetica riluttanza ad adornarsi di medaglie e pennacchi, a incassare premi e ricoprire alte cariche. Nulla di più nauseabondo per il burbero Montanelli. Tanto che ammise addirittura di essersi sentito "imbarazzato, insospettito, indisposto", all'idea di sedere su quel seggio. "Lo vivrei come un modo di imbrancarmi", dice. Un'ipotesi che gli sembra tanto più intollerabile sapendo che i lettori, "i miei unici padroni", la giudicherebbero "un tradimento".
E viene fuori il suo spirito libero: "In questo mondo dove tutti si scannano per ficcarsi in, io sono nato out, e out devo restare". Il Montanelli "politico onorario" nacque e morì nel giro di poche settimane, in quella primavera di 22 anni fa.
Una delle poche volte che in Italia l'opinione pubblica non si divide su una sua scelta. Cossiga che con il giornalista toscano intratteneva rapporti scostanti: "Ottimi in profondità, talvolta turbati in superficie", spiegava, un "consentire e dissentire" che comunque non incrinava la reciproca stima.
Con Giovanni Spadolini, allora presidente del Senato, Cossiga pensò che in lui si dovesse premiare l'indomabile spirito di libertà e il simbolo del giornalismo italiano nominandolo senatore a vita.
La notizia trapelò in fretta, con l'elenco di altri papabili, e che comprendeva Gianni Agnelli, Giulio Andreotti, e appunto Montanelli. Che cominciò a vivere con disagio la stessa indiscrezione. Perciò, prima che la nomina venisse formalizzata, prese carta e penna e scrisse a Cossiga: "Ti ringrazio di tutto cuore della considerazione in cui mostri di tenermi, e che tu sai quanto ricambiata. Ma, prima che sia troppo tardi, ti prego di rinunziare a questo proposito per non mettere me nella spiacevole condizione di un rifiuto, che potrebbe apparire come segno di spregio o di tracotanza". "Niente di più lontano dal mio animo", aggiunse con insolita diplomazia. "Mi sentirei profondamente onorato di venire accolto in una élite come quella dei senatori a vita, in cui figura il meglio della Nazione... purtroppo...".
E a questo punto gli bastarono tre righe per motivare il "no grazie", richiamandosi alla fedeltà verso la professione. Quando la notizia della rinuncia prese il largo Montanelli si affrettò a spiegare: "Io parlo e scrivo contro il Palazzo da mezzo secolo, anzi di più. Se avessi accettato, chiunque avrebbe potuto rinfacciarmelo: ma come, proprio lei..., e invece niente. Resto insomma per conto mio. Un giornalista e basta, che guarda, racconta, e resta indipendente. Vorrei che mi venissero riconosciute poche cose. Una è questa. L'altra è che ho sempre tenuto a debita distanza i politici e i privilegi della politica". Altro che Abbado, Cattaneo, Piano e Rubbia.
Un impegno, quello di praticare l'estraneità al potere, che mantenne fino all'ultimo dei suoi giorni. Con rare eccezioni, fra le quali c'è proprio Cossiga. Un paio di mesi dopo quel clamoroso rifiuto, il presidente si trasformò in "picconatore" e cominciò a terremotare la politica italiana con stilettate a non finire.
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