Nel Pd scatta l'allarme rosso Ora il nemico è SuperMario

Nel Pd scatta l'allarme rosso Ora il nemico è SuperMario

RomaCi fosse un medico al Nazareno, inietterebbe subito l'antidoto. Allarme rosso: il tasso di montismo del leader sta scendendo ai minimi dell'anamnesi. Lo stesso paziente la sta perdendo, la pazienza, e si vede. «Siamo leali con Monti, anche se ogni giorno è più difficile», dice ormai Bersani in giro. Si differenzia, critica apertamente, fa capire che la misura è colma e il sangue ribolle a furia di prelievi quotidiani: «Diremo sempre quel che ci piace o non ci piace, quel che faremo di diverso, e ci sono molte cose per le quali bisognerà fare diverso: esodati, scuola, enti locali...».
Propaganda, certo, ma anche la tentazione crescente di cavarsela con uno choc anafilattico contro quello che sta diventando il nemico numero uno nella conquista del Palazzo d'inverno. Ci vorrebbero dosi elettorali da cavallo, per recuperare il tasso di montismo. Ma, con un Pd inchiodato al 30 per cento, non si può che accertare come, in proporzioni inverse, nelle vene del segretario salga ormai vertiginosamente il tasso di sospetto e irritazione nei confronti del premier. Prima i suoi estenuanti tira-e-molla, poi i conciliaboli al Quirinale, infine raccontano ci si sia messo persino Obama, oltre che la Merkel e gli investitori internazionali, a fare pressing. «Mario accetta la sfida», avrebbe insistito Barack. Veline fatte trapelare ad arte, dalle quali si evince come Washington, oltre che le cancellerie europee, considerino «strategica» la permanenza montiana a Palazzo Chigi. Ci si metta pure il Financial Times e il Vaticano, la disponibilità di Berlusconi e il Manifesto per la Terza Repubblica che viene lanciato oggi con il sottinteso delle liste Italia Civica per Monti (pronube Montezemolo, contro cui si scaglia il sito del Pd: «Febbre da cavallino»).
Figurarsi dunque Bersani, che nelle notti di luna piena sogna la poltrona dove assise D'Alema e in quelle buie soffre l'incubo di Napolitano che gliela sfila per SuperMario. «Non stiamo mica qui a pettinar Palmiro», ha scherzato ieri nell'ennesimo comizio riferendosi non certo a Togliatti, bensì al segretario marchigiano Ucchielli, sosia conclamato di Lenin, cioè calvo. Però, aggiunge ancora Bersani davanti al labirinto che intreccia election day, legge elettorale e governo Monti, «noi stiam fermi, non voglio dare numeri al lotto...». Eppure è sempre più chiaro che tutto si concatena e l'immobilismo prudente assume i contorni della paura, esorcismo compreso («sul Monti-bis non scommetto neanche un cent», copyright Alfano). Bersani preferisce giocare le sue carte sulla legge elettorale, è lì che si decide il suo futuro, sempre che Napolitano non lo lasci a terra, e dunque non esita a evocare uno «tsunami, se quella sera lì vien fuori un Paese ingovernabile e si deve tornare a votare dopo sei mesi... Se puntiamo i piedi su una cosa o due non è solo per il Pd, ma per l'Italia».
Però il partito sa, e sa anche Bersani, che in quel caso l'arrocco di Monti sarebbe cosa fatta.

Tornano così ad agitarsi i fantasmi di Fioroni, che parla di Monti come di un «aggregatore del centro con il quale allearci», il bastone della Bindi che denuncia le «manovre al centro per rendere la sinistra subalterna», le sirene di Franceschini, che ribadisce come «chiunque vincerà le elezioni dovrà porsi il problema di come offrire a Monti l'opportunità di poter continuare a servire il Paese, ci sono molti modi per farlo...». Se Napolitano traslocasse qualche settimana prima, si renderebbe libero un bel palazzo a Roma centro. Un po' sopra e un po' sotto la politica.

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