Non ce l'ha fatta a tenersi il cecio in bocca. Partendo di volata da Sidney, dove partecipava come capo economista dell'Ocse ai lavori del G20, Pier Carlo Padoan ha dato l'annuncio prima che Matteo Renzi consegnasse la lista al Quirinale: «Mi hanno chiamato a Roma a fare il ministro dell'Economia».
Bisogna capirlo. Per l'economista romano, cresciuto all'ombra del Pci prima e di tutte le altre sigle post comuniste poi, è una bella soddisfazione. Dopo una vita passata a fare lo sherpa, su di lui si accendono i riflettori. Il suo pensiero viene passato al setaccio. L'ultima analisi da chief economist dell'Ocse, resa nota proprio ieri a poche ore dalla nomina, non emana di certo quell'energia positiva che piace al presidente del Consiglio. Riferendosi al quadro internazionale, Padoan parla di «ripresa che resta lenta» e di «crescenti preoccupazioni di un abbassamento strutturale dei tassi di crescita rispetto ai livelli precedenti alla crisi».
Per l'Italia e la sua economia depressa, suggerisce il taglio del cuneo fiscale «quando lo stato dei conti lo permetterà», e una riforma del mercato del lavoro che riequilibri le tutele fra lavoratori a contratto fisso e precari. In altre occasioni Padoan ha parlato di tasse «dannose per lo sviluppo, quelle sulle imprese e sul lavoro, e di tasse meno dannose, quelle sui consumi e sui patrimoni». Gli aggiustamenti di bilancio, ha spiegato in una recente intervista, «non si fanno solo coi tagli alla spesa, ma anche con aumenti fiscali». È questo l'uomo che dovrebbe dare la tanto attesa scossa all'economia?
Del resto, difficile aspettarsi qualcosa di diverso dall'ennesimo tecnico catapultato sulla scrivania (vera o presunta che sia) di Quintino Sella. Padoan è un bravo economista, e ha alle spalle una cospicua carriera negli organismi internazionali; ma di certo non è eccentrico rispetto al consensus che regna a Bruxelles, alla Banca centrale europea, al Fondo monetario internazionale. Non sarà lui a dar battaglia in Europa, sollecitando margini più ampi di autonomia rispetto alla cintura di castità del 3% nel rapporto fra deficit e Pil. «Non batterà i pugni sul tavolo, non l'ha mai fatto», dice un collega che lo conosce fin dagli anni Settanta, quando Padoan lavorava a Politica ed Economia, la rivista del Pci diretta da Luciano Barca. Proprio il papà di Fabrizio Barca, che una telefonata truffaldina ha estromesso dalla corsa per la poltrona di via XX Settembre.
La carriera del neo ministro dell'Economia è decollata negli anni Novanta, grazie alla sponsorizzazione pesante di Massimo D'Alema, di cui era consigliere economico. Raccontano di una gran cena orchestrata dallo chef Vissani, il preferito del capo, per festeggiare la nomina a professore ordinario. Padoan divenne direttore di «Italianieuropei», il think tank del leader Maximo. Dal 2001 al 2005 ha rappresentato l'Italia al Fmi come direttore esecutivo, poi è arrivata la vicedirezione generale dell'Ocse a Parigi. Infine, ed è storia di poche settimane fa, la nomina a direttore dell'Istituto nazionale di statistica, bocciata dapprima in una commissione parlamentare - pare per faide all'interno dei democrat - e poi ripescata come si conviene. Non ha fatto in tempo a insediarsi, che già deve dimettersi.
In base a questo curriculum vitae, Padoan sta a Renzi come Boccherini a una band di heavy metal. Tanto che pare in arrivo al Tesoro un viceministro politico di peso che controlli la situazione.
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