Cento e uno. Sono i voti che sono venuti a mancare all’emendamento che contiene i "pilastri" del patto siglato tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Ovvero, le soglie di sbarramento, il premio di maggioranza e gli algoritmi per la ripartizione dei seggi. Fatte salve le assenze, giustificate e non, il "cuore" dell'Italicum è passato a Montecitorio con 101 voti in meno rispetto alla "maggioranza" che sulla carta sostiene la riforma. Così, dopo la bocciatura dell’elezione di Romano Prodi al Quirinale, che fece capitolare l'ex segretario Pier Luigi Bersani, torna lo "spettro" dei 101 franchi tiratori.
Il voto segreto, l'accordo saltato sulle quote rose, il "tradimento" di una sessantina democrat, la baruffa in assemblea con Rosi Bindi e lo "spettro" dei 101 mancanti. Il Pd è sull'orlo di una crisi di nervi. Dopo che la Camera ha respinto tutti e tre gli emendamenti sulle quote rosa, quello sull'alternanza di genere e i due sui capilista, le deputate piddine chiedono al premier (nonché segretario del loro partito) Matteo Renzi di spiegare "perché sono venuti a mancare i voti del Pd". Una richiesta che punta a "ottenere la garanzia" che la legge venga cambiata al Senato. Così, mentre la giovanissima Giuditta Pini augura l'evirazione a chi ha votato contro le quote rosa, la Bindi scende nell'arena e affrontare Renzi vis à vis: "Il Pd è un partito ferito dai 100 voti mancati per far passare la norma antidiscriminatoria". È un attacco frontale, davanti a tutti, in assemblea. Ma il premier tiene la barra dritta: "Se qualcuno non vuole votare l'Italicum, lo deve spiegare fuori da qui".
Per quanto Renzi si sbracci per dire che il partito garantirà ugualmente la rappresentanza femminile, il Pd ne esce con le ossa rotte. Tanto che l'emendamento sulle soglie, cuore dell'accordo siglato con Berlusconi, passa con solo 315 voti favorevoli. E, se si sommano i 416 voti potenziali a disposizione dei quattro gruppi che hanno sottoscritto l’accordo (Pd, Forza Italia, Ncd e Scelta civica), mancano sulla carta, considerando anche gli assenti in Aula, 101 "sì". Si riaffaccia lo spettro dei franchi tiratori che silurando Prodi dalla corsa al Quirinale ha obbligato Bersani a lasciare la leadership del partito. L'estenuante braccio di ferro sulla riforma elettorale rischia seriamente di logorare il governo e Renzi che in parlamento non gode certo di una maggioranza piena. E, se alla Camera i numeri sono stati risicati, al Senato la prospettiva è di gran lunga peggiore.
Aldilà del riottoso sostegno a una legge elettorale senza parità di genere, la minoranza del Pd si prepara a dar battaglia alla direzione di settimana prossima. Il malcontento è generalizzato. Maino Marchi si dimette da capogruppo in commissione Bilancio. Dimissioni che fanno male perché arrivano al termine di un'incendiaria assemblea di partito segnata dall'insurrezione della minoranza piddina e da un Renzi sempre più nell'angolo. "Ha preferito mantenere il patto con Berlusconi piuttosto che rispettare un principio come quello della parità di genere", accusa Stefano Fassina. Non è certo l'unico a pensarla così. Tanto che dal voto di ieri sera la forza di Renzi ne esce ridimensionata.
Il feroce battibecco con la Bindi è la dimostrazione che l'ala di minoranza ha trovato il pretesto per rialzare la testa. "Abbiamo un’idea diversa della democrazia di un uomo solo che fa le cose buone", tuona la pasionaria.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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