Il Pd sta sconfiggendo Renzi che inizia a perdere appeal

È finito lo slancio del sindaco di Firenze, boicottato da colonnelli e capicorrente: le rilevazioni indicano un significativo calo di consensi: "Fa troppe battute"

Il Pd sta sconfiggendo Renzi che inizia a perdere appeal

Non è una notizia dire che l'attività principale del Partito democratico, prima e ancor più dopo la clamorosa sconfitta elettorale di febbraio, si concentra con encomiabile assiduità nello sforzo di azzoppare in ogni modo e ad ogni costo il cavallo che tutti danno per vincente: Matteo Renzi. La notizia, almeno a leggere Europa, è che forse ci sono riusciti: forse il Pd è finalmente riuscito ad indebolire - se non ad azzoppare - il suo candidato migliore.
Secondo il sondaggista Paolo Natale, «da quasi un paio di settimane la figura di Renzi comincia un po' a sbiadire nell'immaginario degli italiani. (...) La perdita di fiducia nel sindaco di Firenze ha toccato quote decisamente significative, quantificabili nel sette-otto per cento dei consensi. Ancora più evidente il calo di coloro che si dichiarano entusiasti: qui raggiungiamo un arretramento vicino al 10 per cento dei consensi. Il tutto mentre Enrico Letta naviga su livelli di fiducia pressoché inalterati, rispetto alla sua marcia consueta».
In realtà, il sindaco di Firenze resta saldamente in testa nella classifica dei politici più popolari, e alla domanda «chi vorreste a Palazzo Chigi?» gli italiani continuano in maggioranza a rispondere con il suo nome. Ma è vero che la flessione c'è stata, che «la sua narrazione perde slancio» e che le cause non sono difficili da individuare. La prima e più importante si chiama naturalmente Enrico Letta: un po' perché i due personaggi sono politicamente, culturalmente e anagraficamente sovrapponibili; e soprattutto perché, come osserva Stefano Menichini, «ci sono dirigenti del Pd che non amano affatto nessuno dei due, eppure provano a giocare la sorte del presidente del Consiglio in carica per troncare le ambizioni del sindaco di Firenze. Gioco scoperto: non avendo candidati forti e dal dna “giusto” da contrapporre a Renzi, provano a usare Letta».
In altre parole, il gruppo dirigente del Pd è intenzionato a tenersi il più a lungo possibile la «grande coalizione» con il Pdl che tanto aveva combattuto e osteggiato, nella convinzione che più le elezioni si allontanano e più si indebolisce la stella renziana: «Il sindaco - scrive ancora il direttore di Europa, che a Renzi è tutt'altro che ostile - non può continuare fino al 2015 a fare l'osservatore critico che regala fulminanti battute in fiorentino, in un ruolo che finirebbe per diventare inconcludente e antipatico tant'è vero che comincia già a essere penalizzato dall'opinione pubblica». Insomma: per il Pd è meglio tenersi Berlusconi al governo che avere Renzi leader.
Tanta ostilità verso chi ti può dare la vittoria elettorale sarebbe impensabile in qualsiasi altro partito, ma evidentemente non nel Pd. Perché? Il motivo va ricercato nella radicale alterità con cui Renzi si pone (ed è percepito) rispetto alle logiche, ai riti e alle convenzioni del gruppo dirigente e degli apparati. Ex comunisti ed ex democristiani vanno facilmente d'accordo anche quando litigano furiosamente perché provengono entrambi dai partiti della Prima Repubblica, di cui conoscono a memoria la regola principale e indiscutibile: il consociativismo nella gestione del potere. In questo schema, assai popolare nella vecchia Dc, segretari e premier si alternano vorticosamente, ma la struttura del potere resta la stessa: gli stessi uomini che sembrano combattersi, si scambiano poi ogni volta le poltrone in palio, e nessuno resta in piedi. Puoi perdere un po' di potere, ma non capiterà mai di perdere il potere.
Renzi spezza questo gioco, si sottrae alla cooptazione che pure gli è stata offerta, rifiuta di partecipare ai caminetti e ai correntoni, e per questo fa paura a tutto il «Pd romano». Se e quando conquisterà la leadership del partito non manderà nessuno in Siberia, non farà epurazioni né espellerà chicchessia, ma di certo è l'uomo che può mandare in pensione una cultura politica autoreferenziale e profondamente conservatrice che gli è del tutto estranea.

Il terrore dei dirigenti - che si esemplifica nel tentativo ricorrente, ancorché un po' rozzo, di dipingere il sindaco di Firenze come un alieno geneticamente modificato, un berluschino o una reincarnazione di Craxi - è il vero cemento che tiene unito il Pd, come e forse persino più dell'antiberlusconismo, che anzi oggi passa in secondo piano visto che è proprio il governo con il Cavaliere la più robusta barriera contro Renzi. Nei mesi che verranno la partita si farà più cruenta, il gioco più spietato. Perché, per la prima volta, è in gioco la vita (politica) di un'intera classe dirigente.

di Fabrizio Rondolino

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