L'imputato e il suo Avvocato se ne vanno a dieci mesi uno dall’altro, dopo avere combattuto con lo stesso male. Nell’agosto scorso, quando Niccolò Ghedini era morto di leucemia, Silvio Berlusconi aveva detto: adesso sono solo. Tanti avvocati intorno a lui, tutti bravi. Ma Ghedini era l’unico ad avere vissuto dall’interno, in prima linea, le ondate inesauribili dell’attacco. Ondate tutte uguali e tutte diverse, che ogni volta prendevano di mira un lato nuovo del Cavaliere, l’uomo di azienda, poi l’amico di Craxi, poi il politico, poi il presidente di calcio, poi il privato cittadino, inanellando accuse sempre più ardite, sostenute da una macchina investigativa dalle risorse illimitate.
Ghedini era lì, nella prima panca dei tribunali o nelle retrovie dello studio padovano, a studiare mosse e contromosse, nella ricerca continua del punto debole che avrebbe fatto crollare l’ennesimo teorema. Alla fine ha vinto lui, l’Avvocato. L’Imputato, l’eterno imputato, muore con la fedina penale pulita. Fallisce l’attacco del pool Mani Pulite, lanciato con il celebre avviso di garanzia al G7 di Napoli, passato in diretta al Corriere: assolto. Fallisce l’altro attacco dei pm milanesi, l’inchiesta che secondo qualcuno doveva costargli addirittura il controllo della Mondadori: nel 1995 Ilda Boccassini torna da Palermo, scopre che Francesco Greco e i suoi colleghi stanno indagando sui verbali di una signora, fa una scenata accusandoli di muoversi con troppo garbo, si impadronisce del fascicolo, trascina Berlusconi sul banco degli imputati dove viene assolto con formula piena. Quindici anni dopo è sempre lei, la Boccassini, a lanciare la battaglia finale, il «caso Ruby» che scaccia il Cavaliere da Palazzo Chigi e trasforma l’Italia in una barzelletta planetaria. Assolto anche lì, la Procura di Milano non si arrende, lo riprocessa, viene assolto di nuovo. Un mese fa, quando i giudici depositano le motivazioni della assoluzione, e spiegano che il processo non doveva neanche iniziare, molti giornali non scrivono neanche una riga, dopo un putiferio durato sei anni.
Per trent’anni, mentre tra Milano e Palermo si combatte l’attacco frontale a Berlusconi, nelle retrovie della magistratura non si sta a guardare: perchè per ogni Di Pietro ci sono dieci dipietrini, e poche procure rinunciano al loro attimo di gloria, al loro avviso di garanzia, ma anche lì zero tituli, nessuna condanna. I più svegli tra i pm tirano il processo così in lungo da incassare almeno una prescrizione che non è una condanna ma neanche una assoluzione, e fa sempre bella figura nel curriculum da inquisitore. E poi c’è lui, Fabio De Pasquale, il pm che ancora oggi può vantarsi di essere l’unico che ha fatto condannare Berlusconi. Nel 2018, quando il tribunale di sorveglianza riabilitò il Cavaliere, cancellando la condanna dal suo certificato giudiziario e rendendolo un incensurato, De Pasquale non commentò, e la procura generale non presentò nemmeno ricorso. De Pasquale - che pure degli inquisitori di Berlusconi è quello più in buona fede - sapeva che in fondo la riabilitazione era il modo migliore per togliere di mezzo una condanna su cui pesano ombre robuste, una oggettiva sbrigatività dei metodi con cui è stata raggiunta: primi tra tutti, i falsi ed i pasticci che permisero al fascicolo di arrivare davanti a giudici della Cassazione diversi dalla sezione cui era destinata. Anche di questo avrebbe dovuto occuparsi la Corte europea dei diritti dell’uomo, se in dieci anni avesse trovato il tempo di occuparsi del ricorso di Berlusconi, ora sepolto insieme all’autore.
Cosa resta, ora che il Cavaliere non c’è più, di questi anni di assedio? Un po’ di amarezza, qualche goccia di incredulità, e alcuni flash. I pm del pool che nel 1994 escono dalla stanza di Borrelli, schierati come gli Intoccabili, annunciando di essersi dimessi contro il «decreto salvaladri» di Berlusconi: una giornalista piange dalla commozione. O Berlusconi che è in quel momento capo del governo in aula, accanto a Ghedini, in una udienza interminabile del processo Sme, spesso con gli occhi chiusi. Presidente, non si annoia? «É l’unico posto dove mi riposo». Ghedini che dal suo studio manda un file che ricostruisce nome per nome l’elenco dei giudici che hanno accusato e condannato Berlusconi: dopo, chissà come mai, hanno fatto tutti carriera. Berlusconi che dopo un’udienza del processo Ruby affronta una muraglia umana di cronisti e fotografi, gente che ha la metà o un terzo dei suoi anni, e li inchioda per venti minuti, spiegando con ostinazione la sua verità, mentre Bonaiuti cerca invano di portarlo via.
E poi, ultimo flash, Berlusconi da solo in una stanza di Arcore, girocollo nero, un pomeriggio di dieci anni fa a parlare del processo Ruby, di quelli venuti prima e degli altri destinati ad arrivare.
A cercare di capire, parlando con un cronista invecchiato nei corridoi delle Procure, il perché di tanta rabbia, tanto accanimento. «Quella, la Boccassini, è comunista?». No, presidente, è la donna meno comunista sulla terra. «Allora perchè ce l’ha con me?». Solo il furore ideologico, solo lo spirito di fazione, rendevano spiegabile per lui l’odio e le risorse impiegate per dargli la caccia. E non era facile convincerlo che certo, esistono le toghe rosse, ma anche quelle bianche e quelle nere, e che a renderlo per tutte un bersaglio da abbattere era solo la sua fissazione di riportare la magistratura al suo posto, al ruolo assegnatogli dalla Costituzione. Perché a lui sembrava una cosa normale.
• Un racconto simbolico della giustizia italiana, un evento esemplare dei mali che affliggono il rapporto tra i poteri dello Stato: questa per Piero Sansonetti, direttore dell’Unità, la sintesi che si può fare della vicenda processuale e politica che per trent’anni ha avuto per protagonista Silvio Berlusconi.
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