Quelle mosse d'alta scuola comunista per gestire il potere facendo a meno del voto

La cacciata di Berluscono e il siluramento di Prodi. Due capolavori di gelida pazienza

Quelle mosse d'alta scuola comunista per gestire il potere facendo a meno del voto

Perfino quando è morto ci ha messo quella silenziosa pazienza, che faceva innervosire, con il ghigno del vecchio comunista a cui frulla in testa qualcosa. Di riuscire là dove dai tempi dei famosi carri sovietici in Ungheria, i grandi suoi padri non ce l'avevano fatta. E nessuno ci leverà dalla testa che Giorgio Napolitano quel compromesso storico che era costato tutto a Berlinguer l'abbia voluto reinventare per essere colui che toglieva di mezzo un mediatore pericoloso: il Cavalier Silvio Berlusconi. Solo che, da buon comunista, e non da comunista buono come dicono, il piano l'ha ordito come sempre in due parti. Una per il partito, il suo, il Pd. L'altra per il popolo, noi fessi, gli italiani.

Così ci siamo caduti come peri. Proviamo a non cascarci in articulo mortis, non foss'altro per rispetto all'undicesimo e un po' pure dodicesimo, presidente della Repubblica italiana. Torniamo indietro a quel 22 aprile 2010, quando il compagno Giorgio, ascoltati i suoi consiglieri, dal Quirinale entra in scena. Al governo c'è Silvio Berlusconi. Ce lo hanno mandato gli italiani nel 2008, dopo il harakiri di Prodi, che avrebbe dovuto prendere il suo posto sul Colle. Silvio sta parlando al Popolo della Libertà all'Auditorium della Conciliazione a Roma, quasi una nemesi di quel che sta per succedere. Perché c'è un signore, lì, che di conciliazioni non intende più parlare. Si chiama Gianfranco Fini e si alza dalla poltroncina in prima fila facendo un gesto stizzito, che mostra plasticamente che la destra berlusconiana nata nel 1994 deve finire in quel teatro. Grida la frase che sarà poi il suo mantra: che fai mi cacci? Mostrando a Berlusconi che in verità aveva già deciso che fare. Aveva deciso che il Cav doveva andarsene. Che il suo tempo era finito. E che quel governo sarebbe caduto. Ed ecco dal Colle la prima mossa di Napolitano, nella scia dell'alta scuola comunista: salvare Berlusconi.

Sto delath? Che fare? Si domandava Lenin. Dargli tempo. E cosi, di fronte a un Pd attonito che già pregustava la caduta dell'arcinemico, quella che non era riuscita a Prodi con le urne né a D'Alema con l'astuzia, né ai giudici con la forza, il compagno Giorgio sceglie la sua proverbiale, appunto, silenziosa pazienza. E concede al Parlamento di votare la Finanziaria a dicembre inoltrato, dando a Silvio il tempo di organizzarsi e il modo di costruirsi la maggioranza di emergenza per far fuori Fini e i suoi e credersi salvo. Ma è una vittoria mutilata per Berlusconi, perché di fronte a una congiura interna, quel Cesare salvato dal suo Bruto fa sembrare Napolitano quello che non è. Un presidente che cerca di tutelare il governo scelto dagli italiani. Che cerca di tenerlo in campo contro le manovre di Palazzo. Questa favola dura il tempo che basta a far scattare la seconda parte del piano. Perché i voti che Berlusconi aveva recuperato in Parlamento, quel tempo supplementare che Napolitano gli aveva concesso, sono un frutto avvelenato. Da un disegno di Italia senza più il Cavaliere che è il vero obiettivo del Pd. Dove la destra possa normalizzarsi, aprirsi, insomma: disfarsi del suo fondatore e altri bla bla bla del genere che in quelle settimane sono il leitmotiv della sinistra. Può davvero finire un'epoca, l'Italia del Cavaliere, e può finire portandosi dietro il suo popolo e i suoi voti, addirittura il suo via libera. Anche perché, cari compagni, si va dicendo in giro, il compromesso storico non si può fare se non c'è l'accordo di quella parte degli italiani. Lo dice Napolitano.

E così alla Camera la maggioranza che aveva retto il governo scende di nuovo. Mentre sale lo spread. Fino alla soglia di sicurezza. Come in uno specchio magico. Sui nostri telefonini compaiono le app con il calcolo dei tassi in tempo reale, come un gioco di ruolo, diventiamo esperti di economia e finanza, tutto all'improvviso cambia colore. Anche Mario Monti, voluto proprio da Silvio in commissione Ue, che rispunta dal taschino del compagno del Colle e si presenta agli italiani come un pensionato da premiare, senatore a vita, pronto a guidare il Paese con i voti di Silvio mescolati a quelli della sinistra. Cornuti e mazziati. Berlusconi se ne andrà. Come vuole la sinistra. Ma voterà sì al governo. Come voleva Fini. Perché il compagno presidente può fare un governo senza passare dalle urne. Lo dice la Costituzione. Ed è qui che cambia la storia del Paese. Da quando un'anomalia diventa regola, da quando una devianza diventa accademia, le regole non valgono più. Fino all'estremo del Napolitano bis, entità politico-istituzionale cresciuta in quei corridoi che la Costituzione aveva sempre tenuto in ombra. E che dopo avere cacciato Berlusconi, affossa pure il suo alter ego, Romano Prodi, tanto ormai è tutto fuori controllo. La scena successiva è l'applauso ipocrita del parlamento a re Giorgio che ha rotto l'ultimo vincolo.

Non serve più votare per mandare a casa Silvio, non serve più scegliere nemmeno il Capo dello Stato. Un'anomalia che stava per diventare la regola. Ma poi Draghi è caduto. E qualcuno ha vinto. Per fortuna.

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