Renzi si ribella a Epifani: vinco, poi sfiderò il premier

Gli uomini del sindaco: chi ha governato con Berlusconi è già battuto in partenza

Renzi si ribella a Epifani: vinco, poi sfiderò il premier

Roma - Cercheranno di far finta di niente finché morte non li separi. Ma intanto i due bubboni della malattia pidina sono venuti alla luce: la questione leader-premier e quella della mancata adesione alla famiglia del socialismo europeo. Punti fondativi connessi tra di loro, e ben si comprende come in questi casi l'uomo-apparato prenda il sopravvento e inviti a sopire, minimizzare, tacere. Lo dice apertamente Gianni Cuperlo, leader figiciotto mai pentito: «Il compito della sinistra non è stare a discutere sul congresso del Pse e nemmeno di Fioroni, il nostro compito è considerarci parte di un campo che vogliamo allargare». Passi per Fioroni, ma la frase è quella di un perfetto - ma non saggio - Mandarino cinese.
Era prevedibile che Matteo Renzi non si scomponesse affatto per le affermazioni di Epifani sulla candidatura Letta che, presto o tardi, incomberà sui comuni destini. «Scontato, ragionevole, chi vuole si faccia avanti, non c'è di che aver paura» è la linea del sindaco. Nel mentre, il premier da Palazzo Chigi mostra la stessa noncuranza a 180 gradi (da Renzi al Pdl): «Per ora non ci penso a candidarmi ad alcunché, il mio orizzonte restano i 18 mesi per i quali ho avuto la fiducia». L'armistizio dovrebbe reggere, nei piani di Letta, fino a che, in accordo con il futuro segretario del Pd, si prenda una decisione «senza farci del male». Mezze frasi, allusioni, dico e non dico: Pisano e Fiorentino sono coscienti che un dualismo mal gestito eliderebbe il futuro di entrambi. Non solo e non tanto perché Matteo ha promesso a Letta tregua armata ma inoffensiva fino a dopo il mandato di presidenza Ue, ed Enrico a Renzi di incassare su quel traino un importante incarico a livello europeo dove giocarsi la carriera. Entrambi sanno, in realtà, che primarie Renzi-Letta sarebbero l'anticamera conclamata di una scissione. Anche perché i renziani userebbero senza riguardo l'arma capace di unificare gran parte del voto di centrosinistra, già sussurrata con forza nell'entourage del sindaco: «Governando con Berlusconi, Letta s' è tagliato mani e piedi».
Così, se per Letta sono disponibili le praterie del centro, Renzi da tempo fa scorribande nel populismo di sinistra, almeno nell'accezione di un rispolverato blairismo. Matteo è certo di poter superare molti dei nodi del Pd lanciando la palla in un non meglio definito «oltre». La questione del Pse è stato lui il primo a evocarla, in un'intervista all'Unità, esprimendo un sì che avrebbe dovuto superare il tema. Peccato che nella sua mozione poi ci si limiti a invocare «un rapporto di sempre maggiore integrazione con il Pse» e basta. Comunque un po' di più e di meglio dell'ipocrisia postcomunista della mozione di Cuperlo, nella quale si propone blandamente di «partecipare al congresso del Pse». Pittella resta l'unico candidato davvero convinto dell'adesione al Pse (ieri chiesta da Damiano e Chiti in appoggio a Epifani). Civati infatti aspira a diventare erede dell'ulivismo, dunque un prodino in sedicesimi.
La portata delle due questioni è assai più importante di quanto si voglia far credere.

Sia perché l'addio al Pse per l'incerto mare del famo-come-ce-pare fu effettivamente inserito nell'atto fondativo del Pd (Fioroni su questo ricorda bene), sia perché il motivo principale per cui il partito nacque era quello di diventare partito-coalizione. Il cui leader, in automatico, diventasse premier in caso di vittoria elettorale. A Renzi, che pretese la deroga, non resta che prendersela con se stesso.

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