Milano - "Se i giornali e le televisioni continuano a ripetere 'crisi', nella testa di ciascuno ci sarà soltanto la crisi tanto da spingerlo a comportarsi di conseguenza". Tanti anni fa, in un peregrinare per la Germania il dottor Giacomo Contri – medico, psicoanalista e presidente dello Studium Cartello – fu affascinato dal titolo di un libro. Sulla prima di copertina campeggiava la scritta Lo Stato sono io. "Ecco proviamo a ragionare come se lo Stato fosse ognuno di noi".
Facciamo questo tentativo…
"Tutto parte da quello che io chiamo il principio di imputabilità."
Cioè?
"Ognuno deve imputarsi le conseguenze generali di ciò che succede. D’altra parte, gli ultimi decenni di storia economica si basano su modelli di comportamento individuale. Senza fare, quindi, differenze, tra micro e macroeconomia dobbiamo essere intellettualmente macroeconomici. Di fronte alla crisi del 1929, Roosvelt coniò lo slogan: 'La sola cosa di cui avere paura è la paura'. Questo si riassume nel self-fulfilling prophecy, un circuito in quattro o cinque tappe che ti porta a plasmare il risultato in base a quello che pensi. In sintesi: 60 milioni di persone che credono di avere a che fare con la crisi sono 60 milioni di persone che contribuiranno alla crisi stessa."
Insomma, va tutto bene?
"Niente affatto. Quanto da me detto non ha nulla a che vedere con gli stupidi ottimismi che nascondono la realtà. Resta il fatto che ci sono 60 milioni di persone che sono messe nelle condizioni di lavorare negativamente. Per capirlo bisogna fare un passo nella psicanalisi: le malattie mentali sono malattie economiche. Vi sono, infatti, due tradizionali criteri infortunistici che spiegano questo meccanismo. Il primo è il lucro cessante, quando cioè un soggetto ha un danno fisico e sceglie il guadagno. In secondo luogo, c’è il danno emergente che può risultare dalla depressione che ne scaturisce."
La stessa depressione che affonda l’economia?
"La stessa. Il termine è lo stesso. Il significato pure. A questi due criteri tradizionali, ne aggiungo un terzo. Si tratta del lucro non emergente. Per spiegarlo bisogna partire dal fatto che nell’economia ci sono due forze lavoro. La prima annovera la forza fisica, la seconda il pensiero. La testa, e quindi il pensiero, è la base dell’imprenditoria. L’imprenditore non è, infatti, altro che una persona che usa la propria forza lavoro di pensiero per porre in essere ciò che prima non era in essere."
Mi sta dicendo che ognuno di noi è, in potenza, un imprenditore?
"Certamente. Le persone hanno un’opinione bassissima del valore degli appuntamenti. Pensiamo, invece, a un individuo che concepisca tutti i propri appuntamenti con lo scopo di portarsi qualcosa a casa. In questo caso il profitto diventa una dimensione ordinaria: avere dunque la concezione di uscire, per esempio, da una serata in cui ci si diverte, con un’idea in testa che prima non si aveva. Purtroppo, questo non succede quasi mai. Eppure sarebbe davvero facile."
E’ una mancanza dettata da una carenza culturale della società?
"Questa carenza è indice della crisi che viviamo. In una famiglia ci sono mediamente tre appuntamenti fissi: colazione, pranzo e cena. Quanti sono nella famiglia che prendono questi appuntamenti da cui fare uscire qualcosa e non invece un luogo di sfogo in cui qualcuno si alza dicendo: 'Che brutta giornata'? Ecco la frase 'Che brutta giornata' contribuisce la crisi. Porto un altro esempio. Un giorno, tornando da Venezia, viaggiavo in treno su un compartimento stipato di gente che parlava di crisi. Una persona, rimasta a lungo zitta, ha spiazzato tutti dicendo: 'Non è perché piove che sarà una lunga giornata'. La frase di quest’uomo è la risposta alla crisi."
Se l’impresa è frutto del pensiero, quando il pensiero va in depressione, si rischia l’immobilità. Questa crisi nasce un crac finanziario che si è poi riversato sull’economia reale andando a minare i fondamenti dell’impresa stessa. Cosa è successo?
"Il panico. Nei decenni le crisi di panico sono cresciute. Le persone se la sono passata l’un con l’altra: è un andare al supermercato per comprare beni negativi. Per questo bisogna partire dalla concezione dello 'Stato sono io'. Non ci sono solo la depressione e il panico, ma c’è anche il fatto che nelle famiglie, e nelle coppie in generale – al di là di un primo momento che possiamo anche chiamare innamoramento – le persone si massacrano a vicenda. Da qui la conseguenza che tutt’e due lavoreranno male. Sarebbe interessante provare a contabilizzare queste perdite."
La parola crisi ha, tuttavia, un’accezione positiva. Indica il momento in cui è necessario prendere delle scelte per ribaltare la situazione. Nel mondo finanziario stanno cercando di farlo: parlano di una svolta etica che riscriva le regole del mercato. Anche nel nostro mondo, in quello dell’economia reale, bisogna riscrivere le regole etiche?
"In un certo senso sì. Bisogna che ognuno di noi faccia proprio il regime dell’appuntamento: mirare al profitto anche se sta bevendo un caffè. Questa nuova etica si chiama 'etica degli affari'. Oggi, purtroppo, l’uomo è stato abituato ad agire secondo un’etica kantiana, un’etica molto pratica che porta ad agire per disinteresse o spassionatezza. In entrambi i casi porta alla povertà e alla depressione."
Ma se è tanto negativa per tutti, chi vuole questa crisi? Chi la porta avanti?
"Se anche ci fossero dentro i soliti speculatori, non sono questi il fattore dominante. Fa peggio, infatti, quello che abbiamo chiamato fattore culturale, psicologico e morale."
A volte, invece, la paura potrebbe generare un tentativo di difesa dall’esterno. E’ forse una reazione sbagliata?
"E’ una reazione normale. Ma non è sempre giusta. Senza fare l’apologia delle violenze carnali, per esempio, la difesa che nasce dai fatti di cronaca nera è esasperata. Sembra, infatti, che il pericolo dello stupro debba essere il primo pensiero che una ragazza deve avere quando va in giro per la città. E rientriamo così nel pensiero della crisi che si fa inglobante e globalizzante."
A fronte di tutto questo, quale sarebbe l’investimento migliore?
"Mah… Darei appuntamento a un certo appuntamento, persone che conosce e giudico affidabili, informandoli che vorrei che fondassimo una società. Non partirei da un contenuto, renderei piuttosto condivisa l’idea di investimento. Da qui, prima o poi, qualcosa nascerà. Magari non subito al primo appuntamento. Magari al secondo o al terzo."
In molti stanno guardando a Obama come all’uomo che risolleverà le sorti economiche del mondo. Prima che potesse agire, è stato attorniato da un’aurea di onnipotenza. Per quale motivo?
"La parola chiave introdotta da Obama è ‘responsabilità’. Non credo, però, sia il termine corretto. Avrebbe dovuto puntare piuttosto su un concetto di imputabilità: 'bada ai tuoi atti, conta sui tuoi atti'. E qui torniamo alla facoltà imprenditoriale a 360 gradi. Insomma, avere coscienza che i miei atti possono produrre coscienza. Poi, potrà pure andare male; ma andrà male per un qualche fattore esterno. Nella Bibbia troviamo la parabola dei talenti che deve essere il fondamento economico della nostra società."
Nel Vangelo di San Matteo Gesù condanna il servo che non ha fatto fruttare il talento datogli dal padrone. La spiegazione sembra quasi cattiva: 'A chi ha sarà dato in sovrabbondanza, ma ha chi non ha sarà tolto anche quello'. Per quale motivo?
"Nella parabola Gesù lascia completamente libera la facoltà imprenditoriale del servo. Quello che viene condannato è quello che non mette a frutto il pensiero come forza lavoro. D’altra parte leggendo la fine della parabola o propendiamo per un significato positivo oppure ci sarebbe una vera e propria rottura con il messaggio evangelico. Il senso di quella frase è, quindi, la messa a lavoro del pensiero come forza lavoro: è una frase anti-crisi. C’è infatti una possibilità che la parabola non contempla ma che, in via logica è possibile: l’investimento avrebbe potuto anche andar male.
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