Per il suo primo Natale da Elvo Zornitta, dopo cinque interminabili anni in cui agli occhi del mondo intero è stato Unabomber, non potrà dormire nella mansarda della sua città natale, Belluno, sopra la casa degli anziani genitori, dov’era solito portare la famiglia per le feste. «L’ho dovuta vendere». Non è bastato, non basterà. Il padre e la madre, ottantatreenni, sono stati costretti a cedere anche la loro casa di vacanza al mare, a Bibione, per aiutarlo a pagare le spese affrontate nell’estenuante battaglia giudiziaria. Non è bastato, non basterà.
Elvo Zornitta, 52 anni, ingegnere aeronautico di Corva (Pordenone), capace di progettare barche, auto, box doccia, macchine per caffè, insomma tutto ciò che è meccanico, da aprile è in cassa integrazione a 813 euro al mese, preludio alla mobilità, «cortese perifrasi di licenziamento». Per fortuna la moglie Donata, architetto, continua a insegnare, «nella scuola primaria, perché è innamoratissima dei bambini», e la figlia Lucia, 13 anni, frequenta ancora la terza media, «quindi niente tasse universitarie, né libri costosi».
Il Natale ha giocato un ruolo speciale in questo mistero che dura da 15 anni e che quattro Procure, una ventina di magistrati, legioni di investigatori e persino l’Fbi non sono riusciti a dipanare, nonostante abbiano avuto a disposizione, per così dire, 34 fra attentati e ritrovamenti su cui indagare, con 13 esplosioni, 9 feriti, almeno altrettanti testimoni e decine di reperti costruiti con luciferina intelligenza per mutilare e accecare, mai per uccidere, bambini e adulti del Nordest: uova di cioccolato, barattoli di Nutella, tubetti di maionese e di pomodoro, scatolette di sgombri, pennarelli, flaconi per bolle di sapone, candele, bottiglie, contenitori cilindrici, sellini di bicicletta, riempiti con inneschi ed esplosivi di vario tipo.
L’ingegner Zornitta solleva il basamento coperto di muschio del presepe costruito nel 2001, esposto in cucina: «Ecco, vede?». Assomiglia al sottofondo di un plastico dei trenini Lima. Un groviglio di fili. «Quella mattina si portarono via cinque scatoloni di roba: circuiti artigianali, resistenze, condensatori, cavi elettrici. C’era anche una fialetta vuota di aroma Paneangeli. Credo che per loro sia stata la quadratura del cerchio». Bastava guardar meglio: il meticoloso ingegnere trasformava quei sottili cilindri di vetro, avanzati dalla moglie dopo la preparazione delle torte, in lampadine artigianali. Le stesse che ancor oggi rischiarano i passi dei pastori in cammino verso la grotta di Betlemme casalinga. Qualcuno deve aver pensato che invece gli servissero per riempirli di nitroglicerina.
Il 2 marzo, su richiesta del pubblico ministero titolare dell’inchiesta, il giudice per le indagini preliminari di Trieste ha disposto l’archiviazione del procedimento contro Zornitta. Il 4 luglio il tribunale di Venezia ha condannato a due anni di reclusione il poliziotto Ezio Zernar, colpevole d’aver manomesso quella che era stata presentata come la prova regina: il famoso lamierino proveniente da uno degli ordigni, tagliato con forbici da elettricista che l’imputato non ha mai riconosciuto come sue. Da allora Zornitta ha smesso di leggere i giornali: «Non ce la faccio. Ho visto quanto poco ci mettono a fabbricare un mostro. Il mio entrò da quella porta il 26 maggio 2004».
Che cosa ricorda di quel giorno?
«Erano le 6.40, mia moglie e io stavamo ancora a letto. Sentii una scampanellata ultimativa. Pensavo che fosse accaduto qualcosa ai vicini. Andai ad aprire in pigiama e vidi due persone vestite di scuro al cancello: “Lei è il signor Zornitta Elvo? C’è una cosa importante che dobbiamo dirle”. Mi avvicinai senza farli entrare. Esibirono un mandato di perquisizione. Dopo un quarto d’ora avevo in casa 16 persone. Mi impedirono persino d’andare in bagno. Solo alle 10 mi fu concesso di vestirmi, con tre agenti in camera a guardarmi. Alle 13 mi portarono a Belluno per un’altra perquisizione nella mansarda, dove però non trovarono nulla d’interessante. Lì cominciò il dramma anche per i miei genitori. Prima d’allora non avevo mai visto mio padre piangere».
Quante perquisizioni ha subìto?
«Altre quattro, la seconda a distanza di un anno. Nel corso della terza mi sequestrarono un paio di forbici da elettricista con l’impugnatura di plastica rossa, marca Valex. Ho appreso che le produce la ditta Franzini di Bergamo. Mai saputo: negli acquisti mi fido solo del mio occhio, vedo subito se c’è un buon rapporto fra qualità e prezzo. Ne ho comprate altre sei paia uguali e le ho fatte numerare».
A che scopo?
«Per difendermi nell’incidente probatorio. Sapevo d’essere innocente. Quindi, se il perito nominato dal giudice affermava che quelle forbici erano servite per tagliare il ponticello d’ottone di uno degli ordigni confezionati da Unabomber, i casi potevano essere solo due: o non erano mie o il taglio era stato rifatto ad arte per incastrarmi. Ai miei periti avevo raccomandato solo una cosa: anche se io so di non essere colpevole, vi chiedo di non dire mai bugie per dimostrarlo. Una notte uno di loro mi svegliò di soprassalto: s’era accorto che il taglio sul lamierino esibito durante l’incidente probatorio non coincideva con quello visibile nelle foto scattate dai carabinieri».
Quanti interrogatori?
«Tre. Il primo, in Procura a Trieste, durò otto ore. Una pressione psicologica tremenda. Con mia grande sorpresa, seduto accanto al Pm trovai il professor Vittorino Andreoli. Noti bene che il magistrato non ha mai ordinato una perizia psichiatrica a mio carico».
Allora che ci faceva lì uno psichiatra?
«Lo ignoro. Ancor più anomalo è che il professor Andreoli abbia poi stilato una relazione senza essersi degnato di interagire con me. Tranne che per una battuta».
Quale battuta?
«Non posso dirlo». (È imbarazzato).
E perché mai?
«Si tratta di una battuta irriferibile, tale da squalificare l’intero interrogatorio. Credo che il verbalizzante non l’abbia neppure riportata».
Quante volte ha dovuto difendersi nelle aule di giustizia?
«Una ventina, fra Trieste, Pordenone e Venezia».
Quanto ha speso?
«Le dico solo che a un certo punto mi sono ritrovato con 2.000 euro sul conto in banca».
Ha avuto risarcimenti?
«No. Il tribunale ha stabilito che il poliziotto condannato dovrebbe rifondermi 200.000 euro. Se li ha. Ma c’è di mezzo il processo d’appello e poi, immagino, si andrà in Cassazione. Campa cavallo».
Qualcuno le ha chiesto scusa?
«Nessuno».
Ma tutta questa gente che ha dato la caccia a lei lo starà ancora cercando, Unabomber?
«Lo spero. Ma ne dubito».
Perché pensa d’aver attirato la loro attenzione?
«Me lo sono chiesto milioni di volte».
E che risposta s’è dato?
«Certamente qualcuno ha fatto il mio nome».
Chi?
«Un subalterno che nel 1984 mi ha avuto come capo sul lavoro. Immagino che nutrisse un forte risentimento per farsi vivo dopo vent’anni, suggestionando gli investigatori».
Lei è appassionato di armi?
«No. Anche se, appena laureato, ho lavorato per due anni alla Oto Melara di La Spezia, industria del ramo difesa, dove mi occupavo di missili. I testi militari sequestrati a casa mia risalivano tutti a quel periodo».
Che parole hanno usato per licenziarla alla Csr Italia di Fiume Veneto, dov’era direttore tecnico?
«“Le avverse condizioni di mercato rendono superfluo il suo ruolo in azienda”. Ho risposto: siate onesti, mi cacciate perché danneggio la vostra immagine. Inutile aggiungere che sono stato l’unico licenziato».
Ma l’ex parlamentare leghista Giuseppe Covre, titolare dell’azienda di mobili Eureka, le ha subito offerto un altro posto in segno di solidarietà.
«A parole. Al colloquio mi è stato obiettato che non avevo il profilo adatto. In realtà gli unici aiuti mi sono venuti da coloro che non hanno fatto passerella sui giornali. Purtroppo ora c’è la crisi e alla Torneria meccanica di Azzano Decimo, che mi aveva assunto solo per darmi una mano, non hanno più bisogno di un responsabile del controllo qualità».
I suoi cari non sono mai stati sfiorati da qualche sospetto?
«Assolutamente no. Però non è facile per una moglie affrontare i clienti del supermercato che ti osservano a bocca aperta o ricevere per posta lettere anonime. Mia figlia ha avuto per cinque anni un feroce mal di testa che le è passato solo alla fine di questa vicenda allucinante».
E lei come sta?
«Ho tirato avanti con questi». (Prende dalla credenza confezioni di Laroxyl, Citalopram e altri psicofarmaci). «Di notte avevo gli incubi. Sognavo di restare sotto una valanga o di affogare in una cisterna d’acqua. Mi mancava il respiro. Il Lormetazepam continuo a prenderlo».
Perché ha ancora bisogno di un ansiolitico?
«Non riesco a dormire più di tre ore».
Com’è trattato dall’opinione pubblica?
«Il 70 per cento delle persone mi riconosce per strada. È uno stress continuo. Domenica scorsa a Feltre i passanti si voltavano a guardarmi. Un giorno sono passato davanti a una trattoria di Borgo Pio, vicino al Vaticano. L’oste era sulla porta e mi ha gridato: “Ahò, a Unabomber!”. Poi s’è scusato: “Non sapevo come chiamarla, non volevo offenderla”».
Che cosa prova quando legge sui giornali di presunti mostri, come le due maestre d’asilo di Pistoia accusate di seviziare i bambini?
«Mi dico: ma perché i magistrati non aspettano una sentenza di condanna nel primo grado di giudizio? Poi divulghino pure nomi e foto».
Che idea s’è fatto di Unabomber?
«Un matto, ma perfettamente cosciente, molto lucido nei suoi disegni, che ha ricevuto qualche torto e cerca di farlo pagare al mondo intero».
Un Pm di Udine ha ipotizzato che l’attentatore sia «un solitario, un conservatore», anche «un po’ razzista», che vuol tenere alta l’attenzione delle forze dell’ordine per «allontanare dal Friuli gli immigrati extracomunitari».
«Non è un’ipotesi che mi convinca».
Secondo il criminologo Francesco Bruno «potrebbe essere dotato di un discreto senso dell’ironia». Spiegazione: «Il pomodoro che schizza da tutte le parti e l’uovo che scoppia tra le mani sono chiari elementi che suscitano ilarità».
«Allora anche chi mette la varechina nell’acqua minerale è un buontempone? A me sembra invece che l’uso di oggetti di largo consumo sia finalizzato solo a far sì che gli ordigni possano essere maneggiati dal maggior numero di persone. Come le mine-farfalla che dilaniano i bambini in Afghanistan».
Affibbiare al criminale il soprannome di Theodore Kaczynski, arrestato negli Stati Uniti dopo una caccia all’uomo durata 12 anni, non poteva che gratificare l’ego del mitomane, non crede?
«È sempre dannoso assegnare a un attentatore seriale titoli che lo facciano sentire importante».
Nel 2000 proposi di chiamarlo Monabomber per la sua scellerata imbecillità, paradosso che dopo cinque anni fu usato in titoli e testi dal direttore del Gazzettino, con seguito di polemiche. Lei come l’avrebbe chiamato?
«Gli avrei dato ogni volta un nome diverso. Quindi nessun nome».
Degli investigatori da cui è stato interrogato che idea s’è fatto?
«Di grande superficialità. Uno è arrivato a classificare come “termometro per la fabbricazione della nitroglicerina” quello che negli Anni 80 si montava sulle auto per misurare la temperatura esterna».
Ma lei se la sentirebbe di aiutare gli inquirenti a dare la caccia allo squilibrato?
«Per quanto assurdo possa sembrare, dopo la prima perquisizione scrissi una lettera al sostituto procuratore di Trieste, Pietro Montrone, spiegandogli che si stavano sbagliando e dando una serie di suggerimenti investigativi, purtroppo. Col senno di poi, temo che gli inquirenti l’abbiano presa come una conferma delle loro teorie, anziché come un aiuto».
Mi dica uno dei suggerimenti.
«Dal 2003 la nitroglicerina non è più in libera circolazione. Si usa solo per i farmaci contro le sindromi coronariche. Però su Internet si trovano le formule per ottenerla in casa da acido nitrico e acido solforico puri, miscelati con un’altra sostanza di comune reperibilità. Quindi bisognava cercare nei laboratori chimici, nelle industrie della plastica e in quelle metallografiche, nelle cantine che testano la qualità dei vini».
L’ultimo attentato risale al 6 maggio 2006. Unabomber non è mai rimasto inattivo per più di tre anni. Non le pare strano?
«Io posso solo dirle che ben cinque attentati sono avvenuti mentre ero sotto osservazione diretta degli inquirenti. L’ho scoperto solo alla fine della mia odissea, consultando il fascicolo processuale».
Che intende per «osservazione diretta»?
«Sei Gps collocati nella mia auto e in quella di mia moglie per rilevare via satellite dalla questura qualsiasi movimento. Una telecamera, accesa 24 ore su 24, piazzata all’inizio della strada dove abito. Tre microspie in altrettante prese elettriche della casa. Monitoraggio costante dei siti web che visitavo. Cinque anni di intercettazioni telefoniche. Pedinamenti assidui: uno degli ordigni fu trovato a Portogruaro mentre ero guardato a vista. Sondaggi con metal e gas detector in tutte le mie proprietà per rilevare eventuali tracce di metalli o di esplosivi: mai trovato nulla».
I giornali l’hanno definita «belva oscena e ripugnante», «mostro disumano», «personaggio ambiguo e sconcertante». Anche «l’ingegnere cattolico».
«Le prime due non me le ricordavo. È un fatto che sono cattolico e praticante. In tutti questi anni ad andare in giro per strada mi sono spesso vergognato. In chiesa mai».
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.