Un intreccio che apre le «danze»

da Milano

La mossa di Arpe di sterilizzare i voti di Intesa al massimo del 2%, è una mossa fulminante. Nel recente passato in due occasioni almeno si è assistito a una operazione simile. E in entrambe i coltelli volavano come al circo. Il primo caso risale all’inizio del 2002. Quando la Fiat, che ancora controllava la Toro, si era messa in testa di conquistare la toscana Fondiaria. Forte anche di un pacchetto del 24%. Ereditato dalla Montedison. Il secondo caso riguarda invece la battaglia senza esclusione di colpi, per far fuori Vincenzo Maranghi da Mediobanca. Unicredito a tal fine aveva comprato una quota di Generali e queste avevano risposto acquistando la banca guidata da Profumo. Montedison, Fondiaria, Generali, Sai, Unicredito, Capitalia, Intesa e Mediobanca sanno sin dal profondo dei loro geni che quando si toccano le partecipazioni incrociate si scatena il putiferio. La tregua armata in finanza non funziona. Alla fine della partita, in tutti i casi, un vincitore c’è sempre. Anche perché, come nel caso di Arpe, per incrociarsi occorrono quattrini. Capitalia ha messo sul piatto 600 milioni: non esattamente peanuts.
La ragione dei romani è chiara: se Intesa ha intenzione di sbarcare sotto al cupolone deve pagare. E caro. Ieri, dopo i recenti rally di Borsa, Capitalia capitalizzava più di 18 miliardi di euro. Se intesa volesse intervenire in maniera non concordata dovrebbe mettere sul piatto 18 miliardi più un eventuale premio di maggioranza. Cifre da capogiro, per finanziare un’offerta pubblica di acquisto: unica via di uscita al nodo degli incroci azionari.
E soprattutto Arpe sa bene che per strutturare un’Opa di questa entità, gli azionisti di Banca Intesa dovrebbero lanciare un aumento di capitale monstre. In sostanza Bazoli e Passera sarebbero costretti a chiedere quattrini agli azionisti francesi del Crédit Agricole, che oggi sono primi azionisti al 18% di Intesa. Uno scenario che vedrebbe il ruolo dei francesi crescere in CapIntesa, piuttosto che diluirsi come avrebbe preferito il professore bresciano.
Il timore dei romani però denuncia anche una loro conclamata debolezza, dal punto di vista degli assetti azionari. Sterilizzare i voti di Banca Intesa vuole anche dire che del proprio patto di sindacato non ci si fida poi molto. Quest’ultimo raggruppa infatti più del 30% del capitale.

E nessuno dunque può pensare di avere un ruolo decisivo nella banca senza superare tale soglia e dunque senza incappare nell’obbligo di legge di lanciare un Opa. A meno che qualcuno non tradisse a favore di Intesa. Ma ormai anche questa strada è chiusa. E Arpe apre le «danze».

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