Inzaghi, il simbolo sgraziato di un calcio che non molla mai

Con lui non ci si chiede come giochi o se sia in forma, ma solo se ha segnato E dopo l’ennesimo gol nel recupero è ufficialmente nata la Zona Super Pippo

Inzaghi, il simbolo sgraziato 
di un calcio che non molla mai

Beppe Di Corrado

Non guardare come, ma che cosa. Gol. Inzaghi ancora, di nuovo, sempre. È inutile contare: 64? 65? 67? Importa davvero quanti ne ha fatti? Tanto presto ce ne sarà un altro: sul limite del fuorigioco, con uno stop goffo, con un tiro sporco e perfetto. Lo splendore della grossolanità, la certificazione che l'estetica conta sempre meno del risultato. Pippo gode, al solito. Un minuto e quarantadue secondi dopo il novantesimo, all'ultimo assalto, all'ultima palla. Cesarini aggiornato. Contemporaneo. Tutta roba sua, di Pippo, perché non si cambia neanche a 35 anni, quando tutti continuano a raccontare che è finito. Cioè «grazie Pippo, hai fatto tutto». È quel momento, quello là, quando in ogni bar dello sport di questo Paese può entrare uno e dire che come Inzaghi non ce ne sono. Fermo al bancone c'è per forza un nemico di Pippo che deve tacere, perché ha appena finito di pensare alla filastrocca di una vita: che è sgraziato, viscido, inguardabile, anti-estetico.

Quante volte s'è sentito: segna alla Inzaghi, quindi facile, col tocco di fronte alla porta, con lo stinco che colpisce prima del collo e crea una traiettoria imprendibile. Culo. Sì, culo. Rimpallo, rimbalzo, deviazione, papera del portiere. Gol e qualche attimo di attesa, perché certe volte non ci crede neanche lui. Poi sì. Poi va. Poi di corsa verso la bandierina con la bocca aperta e le mani agitate come se ogni volta fosse Atene e la Coppa dei Campioni. Inzaghi è lo spot del calcio della speranza è un piccolo totem della fiducia. I suoi gol sgraziati servono a rimettere sulla strada una partita persa o a vincerne una che non si sbloccherà mai. Di Pippo non hai voglia di appendere in camera il poster, ma tieni una figurina nel portafoglio, come un santino al quale aggrapparsi quando non sai più che fare. Allora adesso non serve chiedersi se è titolare o se sta in panchina. Non se lo chiede neanche lui che ha smesso di essere ossessionato dall'idea di giocare ogni partita. Non può, quasi quasi non lo vuole neanche. Con lui si conta il rapporto tra minuti giocati e gol fatti: con lui non devi mica ricordarti se è in forma, oppure no, se gioca bene o se gioca male, se ha preso sei, sette, otto o quattro in pagella. La sponda? E che cos'è? L'assist? In una partita di Inzaghi ti ricordi soltanto se segna o no.
È finita l'era dei Fascetti che lo criticavano perché era un cascatore. Inzaghi ha superato tutto: le botte degli avversari che gli hanno sfigurato anche il labbro, la rivalità con Del Piero ai tempi della Juventus, l'arrivo di ogni tipo di attaccante al Milan, l'ironia sulla dieta a base di solo riso in bianco e bresaola, la presenza di un fratello che l'ha imitato senza essere lui. A 35 anni un centravanti che non gioca titolare fisso non serve. Pippo te lo tieni caro fino a quando sarà lui a dire basta. Opportunista. Cioè un po' meschino. Cioè straordinario. Inzaghi è un desiderio represso e un'invidia perenne: l'idea di essere fondamentale per una squadra anche senza dover essere il più forte di tutti. Non piace ai fighetti, non appassiona gli esteti, poi tutti lo vorrebbero o l'avrebbero voluto perché quando trovi uno che segna con il pezzetto di plastica della stringa che si è appena slacciata, non puoi avere davvero nulla di meglio. Sono più di 15 anni che è così. Gol, gol, gol. Poi le critiche, ovvio. Perché con Pippo è successo quello che di solito accade con i trequartisti, con Baggio, Del Piero, Totti, Cassano. Cioè dividono: allora fino a un certo punto o lo adoravi o lo detestavi. Parrocchie e correnti. Poi qualcosa è cambiato.

Poi è arrivata Atene e la doppietta nella finale di Champions. Tutti zitti. Applausi. Pippo ha ancora nemici, come tutti, solo che adesso non parlano più. Soffrono un po' a ogni gol e non sanno quando potranno smettere.

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