Ma io approvo È un vero genio

La mano di Dio non è peccato. È invenzione, istinto, magia fuorilegge. Quel gol rubato è una «figura del calcio», come una rovesciata, come una rabona, una veronica, un colpo di tacco. È il lato oscuro della prodezza, un colpo immorale e spavaldo, che vale solo se l’arbitro è cieco, distratto e, comunque, in buona fede. Non ha nulla a che fare con i telefonini di Moggi e le designazioni truccate. La mano di Dio resta roba di campo. È il riconoscimento che l’uomo è imperfetto, sbaglia, non vede. Vale nella vita e il calcio non fa eccezione. Chi vuole fare del calcio un paradiso dove tutto torna, dove ogni peccato non sfugge all’occhio divino della moviola, trasforma l’umanità in un videogame. E lì solo il computer bara.
Niente morale. Qui la questione non è etica ma estetica. Non c’è furbizia nel gol di Messi. La mano di Dio è una citazione, un ritorno ai classici. È Petrarca che si specchia in Ovidio. È Scorsese che omaggia De Sica. È Messi che dice a Maradona: sono il tuo erede. Mancano due minuti alla fine del primo tempo. L’Espanyol sta vincendo uno a zero, la palla arriva alta, spiovente, quasi lenta. È un attimo. Il pugno nero di Idriss Carlos Kameni, portiere biancazzurro, sfiora la mano di Dio, ma è in ritardo. La palla rotola in porta. Tutti vedono, tranne l’arbitro e il guardalinee. Messi festeggia, gli avversari si sbracciano. Il pubblico di mezzo mondo esclama: come lui, come Maradona quel giorno del 1986 a Mexico City contro l’Inghilterra. A caldo tutti restano incantati. Poi c’è chi si indigna e chi si gode lo spettacolo. Tutto il resto non conta. Non conta il gol, tanto è inutile. Non conta il risultato: due a due. Non contano i discorsi sull’esultanza di Messi. Non conta chiedere scusa o perdono. Non conta che i giornali argentini scrivano: «Leo come Diego». Non conta neppure che Messi dica: «Maradona è unico, non intendo emulare i suoi gol». Perché comunque lo fa. Lo ha fatto due mesi fa al Nou Camp contro il Getafe. Parte da centrocampo, dribbla quattro giocatori e infine il portiere. Una reinterpretazione, più di vent’anni dopo, del gol dei gol. Ancora il Pibe, ancora Mexico City. È la firma di un ragazzo di 19 anni, di grande talento, che si diverte a mettere in scena degli esercizi di stile, come un viaggio a ritroso nella sua cultura, nelle viscere dell’Argentina, lì dove Diego è quasi tutto. È il ricordo di un genio della pelota. È l’albatros di Baudelaire, con le ali troppo grandi (e troppo grasso) per sopravvivere fuori da un campo di calcio. È l’uomo che a cavallo tra questi due secoli ha incarnato i vizi e la virtù del talento. Ma Leo non è Diego. Maradona è la classicità, Messi ne è la sua interpretazione post-moderna. Tutti e due valgono un’emozione.
Estetica, appunto, e non morale.

Silvio Piola ha segnato 274 reti in serie A e 30 in nazionale. Ma tutti se ne ricordano uno. Una rovesciata verso il cielo e la palla colpita con il pugno che finisce in rete. Era il 13 maggio 1939 a Milano. Italia-Inghilterra: due a due.
Vittorio Macioce

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