«Mi misi al pianoforte, iniziò una serie di vocalizzi». La voce saliva e saliva con grande naturalezza, mantenendosi bella e immacolata, fino a un acuto strepitoso. Poi il dubbio: «Cosa ne pensi? Ho qualche possibilità di fare il cantante? Perché sono maestro elementare e sto facendo bene anche come assicuratore porta a porta. Anzi se non sei assicurato, ti propongo una polizza sulla vita estremamente vantaggiosa». È questo il primo incontro tra il tenorissimo Luciano Pavarotti e Leone Magiera, pianista e maestro di canto di Pavarotti, di Mirella Freni (che sposò per poi divorziare) e di Ruggero Raimondi per citare giusto qualche cima, il catalogo proseguirebbe.
Leone Magiera, 89 anni, è uno scrigno di aneddoti e di ricordi (nero su bianco nell'ultimo libro per la Curci, Cantanti all'opera): vi ricorre - però - se sollecitato, di fatto è un emiliano concreto, con sguardo al futuro. «Non capisco il pessimismo per l'opera che muore, che non è più come una volta. Ma va...».
Ottimista?
«Come non esserlo. Aprono teatri d'opera in tutto il mondo, dalla Cina al Medio Oriente».
Cosa dice dei cantanti d'ultima generazione?
«Sono più completi dei colleghi del passato, più attenti alla recitazione e all'interpretazione, hanno un canto pulito. Non è che in passato fossero tutti così fenomenali. Beniamino Gigli cantava sottolineando i portamenti al punto che sembrava singhiozzasse: grande artista, però oggi questo suo stile non sarebbe accettabile».
Che dire delle regie?
«Devono parlare all'oggi. Talvolta sono discutibili, vero, ma non si possono più fare le regie di una volta. Stesso discorso per i direttori d'orchestra. Ciò che funzionava una volta ora non va più, forse però staccano tempi troppo veloci, vero è però che pure i nostri ritmi sono più rapidi, quindi...».
Cosa pensa della «cancel culture» che cancella dai libretti termini ed espressioni considerati offensivi e che trova offensivo il volto tinto di scuro di Otello e Aida?
«Sono tutte fesserie. Otello è il Moro di Venezia, moro appunto. Aida è etiope. Sbiancare il volto e cose del genere sono forzature del momento, mode destinate a passare, o almeno lo spero».
Eugenio Montale fu suo allievo. Ci racconti.
«Allievo è troppo, diciamo che fece qualche audizione. Voleva cantare a tutti i costi, si lamentava continuamente che non sentiva la propria voce, allora gli suggerivo di proiettarla più in avanti. Era frustrato, sa? Chiedeva pareri a tutti, persino a Karajan, Votto e Gavazzeni. Tutti lo ascoltavano pazientemente rispettando la statura del poeta».
Ha lanciato il Premio Magiera. Perché?
«Per aiutare i giovani. Nascono teatri ovunque, vero, però i nostri italiani faticano più degli altri a emergere, dobbiamo aiutarli ascoltandoli e scritturandoli».
Non dovrebbe essere il compito dei sovrintendenti?
«Il punto è che ci son tanti sovrintendenti e direttori artistici senza preparazione adeguata e così si affidano alle agenzie mentre dovrebbero fare audizioni, andare a scovare le nuove voci. A Ferrara ho ascoltato 350 cantanti per mettere insieme il cast del Don Giovanni».
Cosa hanno in comune i grandi artisti oltre alla voce speciale, salute di ferro, determinazione e via discorrendo?
«Pur avendo paura del pubblico, perché tutti l'hanno, riescono a superarla».
Nonostante il loggione. Quale il più tremendo?
«Quello di Parma e della Scala: divorano il cantante per una stecca».
I melomani sono spesso al limite del maniacale. Non trova?
«Eh sì, proprio maniaci, incuranti del fatto che il cantante è un essere umano e in quanto tale può sbagliare, vogliamo consentirgli di avere un raffreddore o una raucedine? I melomani incalliti tendono essi stessi a fare melodrammi».
In cosa l'opera è identica al
passato?«È meritocratica. Pavarotti e Freni mi dicevano, Bisogna poi cantar bene. Non è che vai a raccontar barzellette in palcoscenico. Vanno avanti i migliori, le celebrità sono tali perché eccellono rispetto agli altri».
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