Stella è «solo» una bimba mingherlina con il sogno di lanciare quel pesantissimo martello lontano, così lontano da battere anche i maschi... Stella vive praticamente sulla pista, a Villa Gentile, il campo storico dell'atletica a Genova: e pare proprio destino, che si dedichi al lancio del martello, ma l'allenatore Robori sembra non essere d'accordo. Che Stella non si arrenderà si capisce subito, anche perché è La bambina più forte del mondo, come si intitola il libro, pubblicato da Salani editore, che ha scritto Silvia Salis, la quale è... beh, una specie di Stella. Nata a Genova, ha iniziato a fare atletica a Villa Gentile a 6 anni ed è diventata campionessa di lancio del martello: molti successi, titoli nazionali a ripetizione, due Olimpiadi; poi il ritiro per infortunio e l'inizio di una nuova vita, nella politica sportiva, come membro del Consiglio federale Fidal e del Consiglio nazionale del Comitato olimpico italiano, fino a essere eletta - prima donna - vicepresidente vicario del Coni nel 2021. «Non avevo mai scritto nulla, però so che ai ragazzi il percorso dell'eroe piace...».
Silvia Salis, come le è venuta l'idea del libro?
«Avevo una storia che volevo raccontare, perché credo sia particolare. Ho vissuto in un campo di atletica: a tre anni con la mia famiglia ci siamo trasferiti in una casa con la pista davanti alla porta... Un sogno. E questo mi ha portato, poi, alla carriera sportiva, fino alle Olimpiadi, e a diventare vicepresidente del Coni a 35 anni. Mi sono basata su scelte non usuali, anche nel percorrere la carriera nella dirigenza sportiva».
Non proprio il regno delle donne.
«Qualcosa sta avvenendo ma resta un mondo molto maschile. Questa mia storia credo possa aiutare ragazzi e ragazze con inclinazioni un po' speciali».
La storia è tutta autobiografica?
«All'80 per cento. Per fortuna non ho mai ricevuto rifiuti dal mio allenatore... E il mio infortunio è stato diverso. E poi non mi sono mai dovuta allenare di nascosto, di notte, come Stella: ma questo mi serviva per far capire che, se hai un sogno, vivi anche con una certa indipendenza e trovi gli spazi per coltivarlo. A volte i ragazzi sono figli dei desideri dei genitori, invece il mio voleva essere un inno alla libertà. Qualcosa che bisogna allenare fin da piccoli».
È cresciuta davvero a Villa Gentile?
«Sì, a Genova Sturla, a cento metri dal mare».
Tutte le fortune.
«Tutte. Era un campo legato a tre istituti, fino al liceo: perciò, per tutta la scuola, mi sono mossa di 300 metri. E questo è stato fondamentale per diventare un'atleta, perché serve tempo per andare ad allenarsi».
Quando ha iniziato?
«I primi corsi di atletica a sei anni. Alla fine delle elementari ho cominciato a fare salto in lungo e poi, a 11-12 anni, il lancio del martello, che però per le donne non era ancora disciplina olimpica».
Quando lo è diventato?
«Nel 2000. Avevo quasi 15 anni. Ero davanti alla tv a guardare le Olimpiadi di Sydney e dissi a mio papà: Ah va beh, ci andrò anch'io. E poi nel 2008 le ho fatte davvero».
A quante Olimpiadi ha partecipato?
«Quasi tre. Mi sono ritirata pochi mesi prima di Rio. Mi ero allenata per qualificarmi, ma da due anni soffrivo di una pubalgia che mi distruggeva: non riuscivo a camminare, a guidare, a vivere... Era troppo».
Che cosa faceva ad atletica?
«I ragazzini fanno tutto: corsa, salto, giochi propedeutici, ostacoli bassi... Poi io facevo nuoto, pattini, bici: ero una scalmanata. Ero una di quelle bimbe impegnative, sa».
Nel salto in lungo come andava?
«Bene, però ero ancora ragazzina. È dopo le medie che ci si specializza ed è stato allora che ho incontrato il mio allenatore, secondo il quale avrei fatto bene nel lancio del martello, nonostante fossi secca».
Era troppo magra?
«Ho un fisico non comune per la mia specialità: certe colleghe sono alte 1,85 metri e pesano 85 chili... Non c'è allenamento per arrivare lì».
Non è certo bassa...
«Sono 1,79, ma non ero alta per il mio sport».
È bionda, alta, bella: sembra una principessa. Una principessa che fa il lancio del martello.
«La forza spesso viene associata a qualcosa di non femminile, invece le donne possono essere forti e poi essere, anche, quello che pare a loro. Per tutta la mia vita da atleta ho subito lo stupore di chi mi chiedeva: ma sei forte? C'è quella favola che le donne siano forti solo d'animo...».
Che la sua storia smentisce.
«Anche per questo ho scritto il libro. Perché i bambini devono sentire le bambine come loro pari; e perché le bambine devono sentirsi forti, come Stella. Quando mi allenavo ero dieci chili in più di adesso: i pesi e gli allenamenti avevano trasformato il mio corpo, ma ero felice, perché ero il mio strumento di realizzazione personale. Invece si dice: se fa questo sport si rovina...»
Non è così?
«Sembra che la bambine siano bamboline di ceramica... Per me è stato un cambiamento in cui mi sentivo realizzata, e poi vivevo fra atleti e atlete forti: il mio canone non era una ragazzina con la taglia 38».
Com'era la vita da sportiva?
«È diventata tale a tempo pieno dopo il liceo: avevo due allenamenti al giorno, ciascuno di 3/4 ore, poi la fisioterapia e altre attività; poi bisogna mangiare in un certo modo, dormire tanto, niente vacanze, le gare nei weekend. C'è un rigore deciso».
Che cosa l'ha conquistata nel lancio del martello?
«Tutta la sua difficoltà tecnica. Il fatto di dover imparare un movimento così complesso mi ha affascinato e mi ha anche permesso di dire la mia, sfruttando proprio l'aspetto tecnico».
È così complicato?
«Sì. È un movimento velocissimo, dove passi da un piede all'altro girando su te stesso, con questo attrezzo che ti tira; e devi capire esattamente quando lasciarlo, perché l'angolo di uscita è soltanto uno, altrimenti il lancio è nullo».
Quanto tempo serve per imparare?
«Anni e anni. E poi devi continuare, per fare sempre più metri».
Su che cosa ci si allena?
«Sulla forza esplosiva, la coordinazione, l'elasticità muscolare».
La forza è già dentro, o la puoi allenare?
«Un po' è parte del corredo genetico, ma l'allenamento è preponderante. Fai pesi, balzi, sprint, corsa veloce, una marea di lanci, esercizi di coordinazione motoria... Devi essere forte ma elastica, potente ma senza appesantirti».
È faticoso?
«Sì. E, tante volte, la fatica non ti permette di essere così lucido sulla complessità tecnica del movimento che, poi, dura due secondi».
La soddisfazione più grande?
«Qualificarmi per le Olimpiadi. Poter dire: ce l'ho fatta».
Quanto le è costato lasciare?
«La cosa più difficile è che, da un momento all'altro, viene a mancare il tuo ruolo, anche verso te stesso: sei una atleta, la tua vita ruota tutta intorno a lì e poi, a un certo punto, quella cosa non la puoi più fare. E tutto quello che hai fatto in precedenza, quelle abilità che hai sviluppato, non ti servono più, e perdono significato».
La vita dopo è difficile?
«Per tanti è difficile ricollocarsi e trovare nuove strade. Devi capire che cosa vuoi essere. Lo dico sempre ai giovani atleti: non aspettate di arrivare alla fine per capire quello che volete fare, perché ormai è troppo tardi; studiate, costruitevi una doppia carriera, e cercate di arrivare preparati».
Ma il suo allenatore era così scettico come quello di Stella?
«No, anzi. Valter Superina mi ha allenato per 15 anni ed è stato come un secondo padre per me, con il quale ho trascorso tutti i giorni dai 15 anni ai 30...»
Esiste davvero la paura di vincere?
«Quando aspetti qualcosa per la quale lavori così tanto, più si avvicina, più sei spaventato. A volte hai perfino un senso di rifiuto».
E come si supera?
«Con l'esperienza».
Stella non vuole correre gli ostacoli, vuole essere libera.
«È la metafora del libro: gli infortuni, l'allenamento sono la frustrazione, che nella vita è fondamentale. Ai bambini si cerca di evitare qualsiasi frustrazione, ma la vita nel mondo reale è quella... Per un grande obiettivo ci sono grandi ostacoli, e vanno affrontati con fermezza, a volte anche aggirati. Bisogna capire il proprio livello e che cosa fare per migliorare».
Che cosa le manca di più dello sport?
«Il contesto. Vivere con gli amici, insieme, un sogno grande. L'amicizia che regala lo sport è forse la parte più bella».
Fra il 2010 e il 2015, in Italia, vinceva sempre lei.
«È stato un periodo buono in Italia, mi sono levata qualche soddisfazione. Lo sport è molto meritocratico e ti insegna quanto fai e vali, sportivamente: ci sono atleti che vincono le Olimpiadi, io ho partecipato. Posso dire di essere stata una buona atleta: sognavo di vincere le Olimpiadi, non è successo, però ho capito di avere anche molto altro nella vita».
Il «dopo»?
«Mi sono concentrata su quello. Alle elementari dicevo che avrei fatto il sindaco di Genova... Così ho studiato Scienze politiche».
Nel futuro che cosa vede?
«Quello che sto facendo, la politica sportiva. Sono nel posto in cui avrei voluto essere: quando hai una esperienza da condividere, il bello è poter incidere sulla vita delle persone. Il solo fatto di vedere una ex atleta che, a 35 anni, è vicepresidente del Coni, è un segnale che le cose stanno cambiando. E, magari, anche un ragazzo può aspirare a fare lo stesso percorso».
Quanto contano le donne nella dirigenza sportiva?
«Ai vertici qualcosa si è smosso, nel quotidiano meno. È chiaro che i numeri debbano cambiare. Certo, il piede nella porta va messo in vista, ma bisogna che porti a un riflesso sul territorio. La chiave è imparare a fare squadra, uomini e donne insieme, e non presentarsi come un team di genere».
Nel frattempo si è anche sposata, col regista Fausto Brizzi.
«Nel novembre 2020, con la mascherina. E poi mi sono risposata un anno dopo, alle Maldive, senza mascherina e coi piedi nella sabbia».
Ha destato scalpore perché si è fatta vedere col suo futuro marito proprio quando lui era nel mezzo del «ciclone», per le accuse - poi archiviate - di presunte molestie mosse da parte di alcune ragazze.
«Provo tristezza per chi basa le scelte della propria vita su quello che pensano gli altri, che poi non si sa chi siano questi altri... Io mi baso su quello che vedo. Mio marito non è stato assolto: non c'erano elementi per far partire il procedimento. Parliamo di niente. Io cerco di valutare le persone con indipendenza, e non con il metro della pubblica inquisizione, che trovo talmente ipocrita...»
Con un marito regista è entrata un po' anche nel mondo del cinema ora?
«Sì, di rimbalzo. Non è un mondo che invidi: preferisco un mondo più meritocratico, come quello dello sport. Però mi piace molto. Io seguo mio marito sul set, e lui mi segue alle gare».
Che sport le piacciono di più?
«Atletica, pallanuoto, perché sono ligure e mio padre ci giocava, e poi nuoto, sollevamento pesi, sport di combattimento. E anche il calcio, sono sampdoriana. Infatti avevo una rubrica sul Secolo XIX che si intitolava Calcio e martello...».
Chi è «la bambina più forte»?
«È tutte le bambine e i bambini che
vogliono affermare chi sono, che cosa vogliono, le passioni che hanno. Venticinque anni fa c'era Billy Elliot che voleva ballare, oggi ci sono le ragazzine che vogliono fare judo e martello. E bisogna lasciarglielo fare».
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