«Io, Robin Hood d’oggi rubo tempo ai ricchi per regalarlo ai poveri»

Los Angeles Chi avrebbe mai immaginato che Justin Timberlake, il ragazzino riccioluto del Mickey Mouse Club, poi membro della boy band NSYNC, sarebbe diventato un solista superstar, il proprietario di una linea di abbigliamento, di un campo da golf e di una marca di tequila, e soprattutto un attore di tutto rispetto in film come The Social Network, Friends with Benefits, Bad Teacher, e ora il raffinato In Time di Andrew Niccol (l’autore di Gattaca), in Italia dal 17 febbraio prossimo. Forse c’era qualcosa di speciale nell’acqua del Mickey Mouse Club 1993-94, che conta tra i suoi alunni anche Christina Aguilera, Britney Spears (la sua prima fidanzata), Ryan Gosling e Keri Russell.
Il suo è un curriculum impressionante per un trentunenne: non si ferma mai?
«Ho preso un lungo periodo di vacanza dopo le riprese di In Time, ma mi piace lavorare ed essere creativo. A volte penso che ho costruito una carriera variegata solo approfittando delle basse aspettative della gente nei miei confronti».
Ci parli un po’ di «In Time».
«Il film è basato su un concetto affascinante. Nel futuro tutti smettono di invecchiare a 25 anni, dopo di che alla gente resta un anno di vita, e il tempo rimanente lampeggia su di countdown digitale sull’avanbraccio. In questo mondo la vera valuta è il tempo e non il denaro. I poveri cercano di guadagnarsi qualche minuto in più lavorando duramente, e i ricchi accumulano tempo e raggiungono una specie di immortalità conservando l’aspetto di venticinquenni. Ma il tempo si può rubare e trasferire col contatto da braccio a braccio».
E il suo ruolo in tutto ciò?
«Sono un povero che riceve per caso un’eredità temporale da un ricco suicida. Mi trasferisco nel mondo dei ricchi ma verrò braccato come un ladro. E quindi, accompagnato dalla figlia di un banchiere che si è innamorata di me (Amanda Seyfried), cerco di tornare nel mio mondo per distribuire il tempo che ho ereditato e quello che ho rubato alle banche del tempo. Una specie di Robin Hood insomma».
Il film a volte sembra una parabola del capitalismo odierno, del 99% contro l’1%.
«Sì, il copione di Andrew è abbastanza visionario. E anche se economicamente faccio parte dell’1%, emotivamente appartengo al 99%. Capisco il bisogno di protestare e chiedere spiegazioni quando il divario fra ricchi e poveri si allarga sempre di più, quando un lavoro non garantisce la sopravvivenza e una categoria di privilegiati sembra non soffrire mai conseguenze. Dobbiamo andare verso una struttura sociale meno ingiusta, la ripartizione della ricchezza è un problema sempre più attuale».
Il film tocca anche l’ossessione moderna dell’eterna giovinezza. Lei ne sarebbe tentato?
«Sentirsi giovani è una questione di testa, e non penso che in futuro sarò tentato da botox e affini: voglio mantenere la possibilità di esprimere sorpresa. Ma se qualcuno si sente meglio col botox, non sta a me giudicare. Io mi sento giovane se sono attivo e in forma per poter giocare a golf senza avere mal di schiena il giorno dopo. Per il resto, o invecchi e dimostri la tua età o sembri solo un vecchio che vuole sembrare giovane...»
Lei si sente diverso col passare del tempo?
«Mi sento meglio, amo la mia vita e seguo il mio istinto. Non voglio vivere secondo aspettative altrui o ritrovarmi in una specie di percorso obbligato. Spero di guardarmi indietro un giorno e dire, "Che bella avventura!". Molti si lasciano intrappolare dalle convenzioni sociali, ma penso che sia meglio che ognuno abbia le proprie aspettative e i propri traguardi. Altrimenti si perde il piacere del viaggio.
Cosa farebbe se avesse solo un giorno da vivere?
«Suona come un cliché ma lo passerei con le persone che amo e che mi rendono felice, e troverei il tempo per una bella partita a golf».
Molti la comparano a Frank Sinatra, è d’accordo?
«È probabilmente il complimento più bello che mi abbiano mai fatto. Ne sono lusingato perché Sinatra è uno dei miei idoli, un grande cantante dall’ottima carriera cinematografica.

Ma lui è unico, e io posso solo ispirarmi a lui, e cercare di toccare la gente con la musica o la recitazione. Ma io non ho un mio Rat Pack (soprannome del gruppo di grandi attori degli anni 50 tra cui Sinatra e Dean Martin...»

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