Sono quattromila i caduti statunitensi in Irak dall'inizio del conflitto, cinque anni fa. I feriti sono quasi 30.000. A far superare la tragica soglia sono stati quattro militari statunitensi uccisi in un attacco condotto con un ordigno esplosivo improvvisato (Ied) nell'area di Bagdad.
Altri episodi di violenza hanno poi insanguinato diverse aree del paese, mentre si è registrato anche un attacco condotto con razzi d'artiglieria sparati dai quartieri sciiti della capitale contro la «zona verde» dove hanno sede amministrazione irachena e comandi. Senza fare vittime. E per quest’attacco il generale Petraeus, comandante delle forze americane, ha chiaramente puntato l’indice contro l’Iran: «Abbiamo le prove».
Le nuove cifre sui morti Usa inducono a riflessioni e sono state commentate dall'amministrazione statunitense. Il vicepresidente Dick Cheney ha detto che soffre per ogni singolo caduto, per ciascun ferito, mentre un portavoce della Casa Bianca ha affermato che il presidente George W. Bush pensa ogni giorno a coloro che si sacrificano e sente il peso della responsabilità delle difficili decisioni che prende.
Ma le perdite che le forze armate statunitensi continuano a subire non sono inutili. Perché in Irak, sia pure lentamente, la violenza tende a diminuire. Le statistiche dicono che il numero di caduti statunitensi nei primi tre mesi dell'anno è nettamente più basso rispetto a quanto registrato negli anni precedenti e contemporaneamente si riducono le vittime tra gli appartenenti alle forze di sicurezza e le forze armate irachene, così come tra la popolazione civile. Gli attacchi contro le truppe statunitensi sono più che dimezzati.
Segnali positivi, che saranno presto confermati nella relazione trimestrale del Pentagono e che rafforzano la convinzione, diffusa ormai tra molti analisti, che la nuova strategia militare e politica statunitense in Irak stia funzionando e, se sostenuta nel tempo sul piano bellico, politico ed economico, possa dare veramente al Paese una chance verso la stabilizzazione.
La scelta di incrementare, sia pure temporaneamente, la presenza militare Usa in Irak per un anno, da giugno 2007, anche se è stata inizialmente pagata con incremento delle perdite, ha poi dato i suoi frutti, anche perché i 160.000 soldati statunitensi sono stati impiegati sul campo, non rintanati nelle loro basi. Anche la decisione di cercare un accordo con i sunniti e la creazione di milizie di autodifesa locali, che oggi contano 90.000 uomini, pur non priva di controindicazioni, sta funzionando. Ed ha sancito la svolta nei confronti della guerriglia targata Al Qaida che, se non sconfitta, certo ha subito colpi durissimi. Ancora, le forze di sicurezza irachene sono sempre più consistenti e meglio preparate, pur se moltissimo rimane da fare.
Infine, le milizie sciite dell'esercito Mahdi di Moqtada Sadr rispettano il cessate il fuoco, malgrado le spaccature all'interno del movimento abbiano ultimamente portato a nuove azioni da parte delle fazioni sciite estremiste.
Il quadro giustifica un timido ottimismo, sempre che ci sia la volontà di insistere: non a caso i generali stanno raccomandando al presidente Bush di sospendere per 4-6 settimane il ritiro di altre truppe dopo che, a fine primavera si sarà tornati a quota 130.000 soldati. Serve tempo. Se ne sono resi conto anche i candidati democratici alla presidenza: la senatrice Clinton parla di nuovi ritiri a 60 giorni dal suo eventuale insediamento, il che vuol dire...
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