IRENE BRIN Non è il bon ton che fa la vera signora

Scoperta e lanciata poco più che ventenne da Longanesi, incarnò un giornalismo colto brillante, leggero, talvolta caustico, mai superficiale

Si chiamava Maria Vittoria Rossi ma nessuno seppe portare bene come lei lo pseudonimo Irene Brin: serio nel nome greco, spiritoso nel breve cognome dal suono musicale. Fra i suoi tanti pseudonimi (Marlene, Mariù, Oriane, Geraldine Tron, Maria del Corso, Contessa Clara, Madame d’O), questo - trovatole da Leo Longanesi quando l’invitò a scrivere per Omnibus nel 1937 - divenne tutt’uno con lei perché più di tutti rispecchia la persona e il particolare tipo di giornalismo che lei incarnò: colto, brillante, leggero, talvolta caustico, mai superficiale, mai nemmeno sfiorato da un’ombra di volgarità. O di supponenza. O di intellettualismo a buon mercato.
Quando - in uno dei tanti consigli di saper vivere e di buona educazione che elargiva dalle colonne di Omnibus e poi da quelle della Settimana Incom di Luigi Barzini jr - si accorgeva di avere citato troppe celebrità, subito abbassava elegantemente il tono: «Perché non mi si accusi di citare solo i Grandi della Terra, aggiungerò che, durante una sosta nell’albergo principale di V., cittadina piemontese, seguii lo svolgersi di una festa danzante...». Eppure era forse una delle donne più cosmopolite di quell’epoca euforica e contraddittoria che fu il secondo dopoguerra, perfettamente introdotta nella superstite grande nobiltà europea come nell’alta società americana e negli ambienti artistici e intellettuali, romani e non romani.
Solo a una come Irene Brin poteva capitare di passeggiare un pomeriggio del 1950 a New York per Park Avenue indossando un tailleur di Fabiani e di sentirsi interpellare da una scheletrica, elegantissima dama: «Ma dove l’ha preso quel tailleur? Di chi è?». Veramente indiscreta la signora, almeno secondo i canoni ferrei di riservatezza seguiti da Irene Brin e da lei suggeriti alle sue lettrici e ai suoi lettori, ma tant’è, era pur sempre un’americana, andava scusata. Anche perché rivelò chiamarsi Diana Vreeland, mitica e tremenda direttrice di Harper’s Bazaar, la più sofisticata delle riviste newyorchesi alla quale collaboravano scrittori come Truman Capote e Carson Mac Cullers, fotografi come Brassaï e Henri Cartier-Bresson. Un ambiente elitario che mescolava moda e avanguardia culturale, dettando legge nel costume, nel comportamento, nelle scelte degli happy few. La nuova collaboratrice Irene Brin non era da meno: a quell’epoca aveva già viaggiato il mondo in lungo e in largo e parlava cinque lingue.
Era nata in Liguria nel 1914, l’anno del primo grande conflitto europeo, nel paesino di Sasso, vicino a Bordighera. Famiglia composita e multiculturale la sua: il padre ferreo generale di carriera, la madre una fantasiosa ebrea di nascita austriaca, che le insegnò le lingue e le trasmise la passione per l’arte e la letteratura. Non aveva ancora compiuto vent’anni quando debuttò sul quotidiano Il Lavoro, firmandosi Mariù, pseudonimo al quale preferì poi il proustiano Oriane. Ma fu Longanesi a “inventarla” come Irene Brin e come giornalista di costume. Longanesi, grande scopritore di giornaliste brillanti. Negli anni ancora a venire, Il Borghese avrebbe reclutato Orsola Nemi, scrittrice e traduttrice, moglie del geniale Henry Furst. Avrebbe pubblicato La vera signora di Elena Canino, un po’ la sorella maggiore di Irene Brin, che morì precocemente nel 1957, mentre Irene viveva in pieno la sua fortunata stagione.
Quando cominciò a scrivere per Omnibus, Irene Brin aveva 23 anni. Tre anni prima a un ballo all’Hotel Excelsior di Roma aveva conosciuto Gaspero del Corso, aitante giovane ufficiale nato in Eritrea: fu amore improvviso, sbocciato da una appassionata discussione sulla Récherche, cementato in quattro incontri successivi nei quali i due scoprirono di aver in comune la passione per l’arte, per la lettura e per i viaggi. Del Corso era un collezionista attento e intuitivo e un viaggiatore intelligente. Il loro fu un matrimonio per la vita.
Insieme la giovane coppia viaggiò per il mondo, guardando, conoscendo, allacciando contatti, intrecciando rapporti. Fu la nuova guerra a fermarli. Nel 1943 tornarono a Roma, con pochissimi mezzi e incerte prospettive per il futuro. Vivevano nascosti, perché Gaspero nella confusione dell’armistizio era un ufficiale in clandestinità che per di più nascondeva altri militari sbandati, antifascisti e umanità varia. Si mantenevano con le traduzioni di Irene per vari editori, proventi che si facevano sempre più scarsi e precari. Alla fine, non sapendo più come far quadrare lo sparuto bilancio, Irene decise di vendere i regali di nozze: cominciò con una borsetta di coccodrillo e proseguì con disegni di Picasso, Matisse, Morandi. Poi trovò un posto di commessa alla libreria La Margherita dove Gaspero, al quale Alberto Savinio aveva trovato il falso nome di Ottorino Maggiore, l’aiutava a trovare libri, quadri e compratori. Un giorno passò dal negozio un giovanotto a mostrare un portfolio di splendidi disegni a inchiostro. «Mi chiamo Renzo Vespignani», disse. Irene comprò i disegni dell’esordiente e li rivendette il giorno stesso. Poco tempo dopo lasciò La Margherita e affittò un localuccio in via Sistina: era nata la galleria L’Obelisco di Gaspero e Maria del Corso, una delle più famose di Roma e d’Italia dove sarebbero passate tutte le avanguardie degli anni Cinquanta-Sessanta, ma anche tutti i “classici” dell’anteguerra: Afro, Capogrossi, Fontana, Burri, Pomodoro accanto all’“epurato” Sironi, a Morandi, De Chirico, Balla, Campigli. E poi per la prima volta in Italia i grandi stranieri: Matta, Magritte, Kandinskij, Moore, Calder, Dalí, Bacon, Rauschenberg.
Contemporaneamente Irene scriveva: con uno stile asciutto, ironico, pungente, appena deliziosamente snob, profondamente laico, che irritava il populismo marxista come il perbenismo democristiano. Scriveva di moda, che fu con l’arte la sua grande passione. I suoi reportage su Pucci, sulle sorelle Fontana, su Fabiani, dalle colonne di Harper’s Bazaar, spalancarono alla moda il Golden Gate d’America. Fu lei a portare in casa del marchese Giovanni Battista Giorgini (il promotore della famosa sfilata del made in Italy nel 1951) il primo gruppo di compratori statunitensi. Alle sfilate di palazzo Pitti, a Irene era riservata una poltrona, accanto a quella della sua grande amica, la disegnatrice Brunetta Mateldi.
Intanto dalle pagine della Settimana Incom la misteriosa Contessa Clara (solo dopo la chiusura della rubrica se ne conobbe l’identità) elargiva consigli di savoir faire: come vestire, come comportarsi, che cosa assolutamente non fare. Sostenitrice di un’eleganza che aveva i suoi modelli in Coco Chanel e in Wallis Simpson, duchessa di Windsor, per la quale non si era mai «troppo ricche e troppo magre». Preziose pillole di saggezza, intelligenza e umanità, prima ancora che lezioni di stile. Perché la Contessa Clara non insegnava soltanto a usare bene il coltello a tavola, a organizzare alla perfezione un ricevimento, a scegliere i calzini giusti o la giusta sfumatura di rossetto. Fondamentale era, sempre e dovunque, il rispetto di se stessi e degli altri. E questo insegnamento, che oggi appare così desueto, è la più preziosa eredita del bon ton di Irene Brin. «Siate, tranquillamente, generosi e cortesi verso chi non fa alcun conto sulla generosità e sulla cortesia altrui». «La comprensione, il rispetto delle personalità altrui sono i soli sistemi per sembrare, ed essere, veramente intelligenti».
A cavallo tra l’etica ferrea dell’anteguerra europeo e l’incalzare di una nuova società affacciata su entrambe le sponde dell’Atlantico, Irene Brin si muove con sicurezza sul rischioso spartiacque che divide la disinvoltura up to date dalla rumorosa maleducazione, senza rischiare mai di perdere l’equilibrio. Non cede al populismo («Non approvo i campeggi, li considero noiosi, stanchevoli, ingiusti e vagamente immorali»), né alla sciatteria («Non ho mai mangiato, né mai mangerò, un gelato da passeggio»). Divorzista convinta, non teme di scrivere: «Spero di non irritare le mie lettrici... quando dirò che, per la donna, il matrimonio simboleggia il vero, grande, unico successo». È ancora l’epoca in cui «una signora sola evita di andare al bar a bere qualcosa in piedi» ma già si diffonde la televisione che «probabilmente non è una forma d’arte, e nemmeno d’informazione, perché soggiace a tendenze politiche ed isteriche assolutamente discutibili» ma con la quale bisogna pur fare i conti.
Irene Brin morì nel 1968. Quando seppe della malattia che la stava corrodendo, decise che la cosa migliore era continuare a vivere e a lavorare, come sempre. Nell’estate del 1968 andò in macchina con Gaspero a Strasburgo per le consuete mostre d’arte. Si sentì male al ritorno e fece sosta nella sua casa di Sasso, dove morì la settimana dopo. Così non fece in tempo a vedere la maleducazione post-Sessantotto.

Nel 1964 aveva scritto: «Il dopoguerra è finito, un poco malinconicamente, come finiscono i periodi di euforia e benessere.» E poi: «Viviamo avvolti di un fracasso inutile, di un’angoscia stupida». Fracasso e angoscia: gli emblemi del tempo di oggi.

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