L'American Colony sta sulla Nablus Road, a Gerusalemme Est, poco prima della Porta di Mendelbaum e lungo quella che fino al 1967 era la «Linea Verde» che divideva in due la città. Dalla Porta di Damasco, fra il quartiere cristiano e quello arabo, in venti minuti ci arrivi a piedi e se per il sole, il caldo, la strada dissestata e il traffico la passeggiata non è invitante, hai però come ricompensa il bel giardino profumato che all'hotel fa corona, un'oasi di freschezza e di buon gusto. Il Colony è l'albergo dei giornalisti che viaggiano in nota spese e dei diplomatici, quelli di professione e quelli che si ostinano a pensare che convivenza non faccia rima con sopraffazione. È meno tronfio e meno caro del King David, che già nel nome è l'albergo israeliano per eccellenza e insieme un monumento alla storia del sionismo. Nel 1946, quando ancora la Palestina era sotto mandato britannico, l'Irgun, che era un gruppo clandestino e paramilitare sionista, lo fece in parte saltare in aria, 91 i morti, 46 i feriti, molti i civili in ambedue gli elenchi, ulteriore dimostrazione che il confine fra terrorismo e guerra di indipendenza e di liberazione è pressoché inesistente ed è di solito chi vince a trasformare i terroristi di ieri nei patrioti di domani. Ma questa è un'altra storia.
Tornando al Colony, tolta la piccola piscina e la piccola palestra, la struttura è più o meno rimasta la stessa rispetto a quando, nel primo Novecento, si trasformò da centro filantropico-assistenziale in albergo. Dal punto di vista architettonico è una villa ottomana a più piani, composta di due edifici fra loro collegati, una novantina le camere, un bar sotterraneo. Ciò che fa la felicità dei giornalisti e degli intellettuali in genere è la fornitissima libreria che s'affaccia sul giardino e che contiene il meglio della letteratura mediorientale disponibile. Dietro di essa c'è una lunga storia, su cui torneremo, ma questo bookshop, così come le botteghe d'antiquariato e di gioielli che fronteggiano l'ingresso e che nel tempo hanno chiuso, riaperto, cambiato proprietari, fanno parte di quel lusso un po' glamour che è il fascino stesso del Colony: non troppo grande, non troppo accessoriato, rigoroso nella conduzione, sufficientemente appartato per sfuggire al turismo di massa, non così caro da risultare inavvicinabile a un comune mortale (attualmente una camera standard costa intorno ai 300 euro).
Sul Colony e la sua storia sono appena usciti due libri, complementari fra loro e scritti da due inviati italiani di lungo corso. Il primo si intitola Il giardino e la cenere, di Alberto Stabile (Sellerio, pagg. 233, euro 15); il secondo Jerusalem Suite, di Francesco Battistini (Neri Pozza, pagg. 428, euro 22). Se Stabile preferisce un racconto dove le sue memorie di corrispondente si mischiano con le frequentazioni, le amicizie e persino gli amori vissuti all'ombra del Colony, Battistini mischia maggiormente la sua esperienza di cronista di quello che è ormai un conflitto infinito con il piglio e la passione dello storico perché poi, come egli stesso scrive, «il Colony ha visto ventun guerre, trenta piani di pace, ventidue accordi, ottocento risoluzioni Onu. L'autobiografia di tre religioni, due popoli, una città». Letti insieme i libri si rivelano un contributo importante sia sul mestiere giornalistico in quanto tale, sia su una città, Gerusalemme, che di quel conflitto infinito è vittima e insieme carnefice, per le implicazioni etiche e politiche che la sua completa annessione da parte israeliana ha finito con il comportare. L'aver scelto il Colony come luogo simbolo è del resto da parte di entrambi il modo più intelligente per viaggiare a ritroso nel tempo, verificando come nel corso ormai di più di un secolo i margini di una possibile convivenza si siano fatti sempre più labili sino poi a scomparire, e come di quella convivenza, per la sua storia, le sue scelte, il suo precario equilibrio il Colony continui a rimanere una piccola oasi e insieme una bandiera di civiltà.
Il nome e la fondazione dell'American Colony, rimanda d'altra parte a un'epoca, la fine dell'Ottocento, in cui, come scrive Battistini, per un viaggiatore d'oltreoceano il cammino verso la Palestina equivaleva «al Grand Tour che gli aristocratici si concedevano nell'Italia del Settecento, ai viaggi in India dei nostri pellegrini new-age, alle moderne meditazioni occidentali negli ashram di qualche guru».
Horatio Spafford è uno di quei viaggiatori d'oltreoceano. Avvocato, uomo di fede, tra i fondatori della chiesa Presbiteriana di Chicago, quando nel 1881 decide di trasferirsi in Terra santa e di fondarvi una comunità di preghiera e di assistenza ai più poveri e ai più bisognosi, lo fa perché la sua vita ha appena subito uno sconquasso incredibile. Il grande incendio di Chicago gli ha pressoché bruciato il patrimonio, il naufragio del transatlantico Ville-du-Havre dove la moglie Anna e le loro quattro figlie viaggiavano alla volta dell'Europa, ha visto salvarsi solo la prima. Per entrambi è come se il Signore avesse voluto metterli alla prova e, come dirà, Anna: «Ho elevato la mia anima a Dio tra il dolore e la disperazione, e umilmente ho deciso di dedicare la mia esistenza al suo servizio». La nascita di un'altra bambina, Bertha, la morte del marito, l'incontro con la Chiesa evangelica svedese, scandiscono le successive tappe di quella prima comunità e mentre l'Ottocento si chiude l'American Colony allinea un ospedale, una mensa, una scuola e l'albergo-locanda ricavato in quella villa ottomana che da allora in poi sarà la sua sede. Quando nel 1917 Gerusalemme si arrende alle truppe inglesi del generale Allenby, la bandiera bianca sventolata dal suo sindaco-effendi è ricavata da un lenzuolo del Colony Hotel ed è al Colony Hotel che poco tempo dopo si incroceranno Lawrence d'Arabia, Gertrude Belle, Winston Churchill...
Gli anni degli Spafford, nota Alberto Stabile, coincidono più o meno con la Prima Aliyah, ovvero l'ondata di emigrazione ebrea dall'impero russo, quando in Palestina ci sono all'incirca 400mila arabi, 40mila cristiani, 14mila ebrei. Il movimento sionista fondato da Theodor Herzl nel 1897 accentua il fenomeno migratorio, dandogli un carattere nazionalista, e alla vigilia della dichiarazione Balfour del 1917 con cui le potenze occidentali, Gran Bretagna in testa, stabiliscono «un focolare ebraico» in Palestina, «la popolazione è così suddivisa: 670mila arabi, 81mila cristiani, 60mila ebrei. A metà degli anni Trenta, gli ebrei saranno un terzo della popolazione. Nel 1939, quasi la metà. La coabitazione, apparsa sin dall'inizio molto difficile, con l'andare del tempo si rivelerà impossibile».
I successivi disastri combinati dagli inglesi in Palestina e simboleggiati dai tre libri bianchi da loro stilati fra le due guerre, sono ben raccontati da Battistini, sullo sfondo di un Colony che riesce a mantenere una sua neutralità mentre la Palestina brucia; così come è ben rievocato il ruolo un po' grottesco di Tony Blair, all'indomani della Seconda Intifada del 2007, nelle vesti di inviato di pace del cosiddetto Quartetto (Onu, Unione europea, Stati Uniti e Russia): «Tante chiacchiere, zero risultati». Occupa l'intero quarto piano del Colony e quando lui e il suo staff se ne andranno lasceranno «un conto di milioni di dollari pagati dalla comunità internazionale. Beati, certi costruttori di pace».
Della libreria del Colony abbiamo parlato all'inizio, ma la sua storia è esemplare per capire come nel tempo chi vince decide di fare sempre più a meno dello sconfitto che si ostina a stargli fra i piedi. Il suo futuro proprietario è un giovane palestinese emigrato negli Stati Uniti dopo la Guerra dei sei giorni del 1967. Non ha voluto prendere la cittadinanza israeliana, che Israele ha voluto per la Gerusalemme araba ormai da lei occupata, ma ha scelto la formula della «residenza permanente», documento che gli permette di andare e venire dall'estero, ma che ogni tre mesi va rinnovato. Decide di tornare a casa dopo gli accordi di Oslo del 1993, sanciti dalla storica stretta di mano tra Arafat e Begin, ed è allora che apre il suo book shop. Dopo alcuni anni però una nuova legge stabilisce che chi se n'è andato un tempo, adesso non può più tornare e nemmeno risiedere... «Sono nato a Gerusalemme. Ci abitano i miei. Ci vivevo prima che arrivassero a occuparla loro, quelli che adesso mi dicono di andarmene»... Fa ricorsi, campagne stampa, si mobilitano per lui scrittori e politici: alla fine vince, ma è talmente disgustato dall'idea di essere comunque uno straniero in patria che vende tutto e se ne va...
Al Colony, i dipendenti sono un mosaico di fedi, musulmani,
cristiani, ebrei, gli appalti per i lavori vengono suddivisi fra ebrei e palestinesi, è un continuo equilibrio e insieme un puzzle fatto di faticosi incastri. Per certi versi è un miracolo, l'unico oggi possibile in Terra santa.
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