Israele, un kamikaze piomba sulla tregua

Zakarya Zubeidi, capo delle Brigate Al Aqsa nel campo profughi palestinese, non vuole ricominciare la guerra: «Non combatto più ma le armi non le depongo»

da Gerusalemme

Per un soffio non è stata strage. Per un soffio non è stata nuova carneficina. Ma non è stata solo fortuna. Non è stato un inspiegabile miracolo. A salvar le vittime predestinate, ad allontanare da quell’autobus la bomba umana già innescata sono stati un autista scrupoloso e due guardie pronte all’estremo sacrificio.
È successo poco dopo le otto di ieri mattina alla stazione dei bus di Beer Sheva, la capitale del Negev. L’autista del numero nove vede salir a bordo quel giovane pallido come un cencio, con un zaino in spalla e una sporta di plastica in mano. «Va a Soroka?, chiede lo spettro emaciato e l’autista in un attimo realizza. Soroka, l’ospedale, un fallito attentato all’inizio dell’anno. «No, per Soroka da quella parte», lo fa scendere, lo guarda allontanarsi, lo indica a due guardie. Poi il sacrificio e l’orrore. Le due guardie fanno quel che devono. Rincorrono lo spettro, lottano, gli bloccano le mani. Quello si agita, non si ferma, aggrappa il cordino. Un boato e son tutti e tre in aria, in un divampar di fiamme e fumo. Lo spettro è a terra, squartato. Loro, i due eroi di Beer Sheva, respirano ancora in quel mare di sangue, vetri e rovine. Uno è in condizioni disperate, uno, forse, se la caverà. I 48 feriti sfiorati dalle schegge e dalle fiamme non posson che ringraziare il loro coraggio. Intanto, dopo la bomba, il consueto rito d’indagini, retate, rivendicazioni, condanne e minacce di rappresaglia.
La responsabilità, come previsto, se l’assume la Jihad islamica che annuncia d’aver vendicato l’uccisione di un suo militante e altri quattro palestinesi eliminati a Tulkarem sei giorni fa. L’attentatore, di cui non si sa ancora il nome, era stato prescelto tra i volontari dei villaggi di Hebron, i più vicini e i più “comodi” per raggiungere la zona di Beer Sheva. «È una naturale reazione ai crimini dell’occupazione», commenta immediatamente Khaled al Batch, un leader della Jihad islamica di Gaza.
Per il presidente palestinese Mahmoud Abbas, deciso a rompere il circolo di violenza, la fallita strage di Beer Sheva è «solo un attacco terrorista da condannare con tutta la forza». Ma il presidente dell’Anp sembra l’unico a non offrire giustificazioni. Per Jibril Rajoub, il suo Consigliere alla sicurezza chiamato a tener testa ai gruppi armati, la tentata strage è anche «la conseguenza del crimine israeliano di Tulkarem».
Israele invece ha immediatamente chiesto all’Anp «misure severe contro i gruppi terroristici». «Quanto è successo - sostiene il portavoce del governo Avi Pazner - è il risultato dell’inazione dell’Autorità palestinese».
Ma fra i dirigenti palestinesi c’è anche forte contrarietà nei confronti di Israele che ha appena deciso di costruire un nuovo tratto della barriera di sicurezza attorno alla colonia - città di Maaleh Adumim, cosa che a loro parere rischia di separare fisicamente Gerusalemme est dalla Cisgiordania.

Ieri il premier Abu Ala ha dunque voluto che il governo palestinese fosse convocato ad Abu Dis, un rione a ridosso di Gerusalemme attraversato dalla Barriera. «Israele - ha denunciato il premier palestinese - vuole chiuderci in un ghetto».

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